Il venerdì del silenzio
- Alessio Uva
- 11 apr
- Tempo di lettura: 5 min
Perché la Serbia si ferma ogni settimana alle 11:52
a cura di Alessio Uva
Il giorno in cui è crollato tutto, tranne la bugia
Novi Sad, 1° novembre 2024. Alle 11:52 del mattino, un boato squarcia la normalità. La pensilina esterna in cemento della stazione ferroviaria – nuova di zecca, appena ristrutturata grazie ai fondi cinesi della Belt and Road Initiative – si accartoccia su chi era al di sotto. Sedici persone muoiono, trenta rimangono ferite.
Nel giro di poche ore, il governo serbo smette di contare le vittime e inizia a difendersi. Il ministro dell’Edilizia, dei Trasporti e delle Infrastrutture Goran Vesić parla ai microfoni delle televisioni serbe affermando che «lui non si sente responsabile» in quanto non è stata ricostruita durante la ristrutturazione della stazione ferroviaria.
Pochi minuti dopo, i filmati degli operai sulle impalcature hanno fatto il giro dei social media serbi. Secondo l'ingegnere Zoran Đajić, supervisore della ricostruzione dell’edificio ferroviario di Novi Sad fino a marzo 2023, non è vero che non è stato effettuato alcun lavoro sulla pensilina, perché in seguito è stata ricoperta di vetro. «Le piastrelle di ceramica sul soffitto sono state riparate e solo la pensilina è stata dipinta», ha sottolineato. La credibilità delle istituzioni si sgretola come quella tettoia.
Zastani, Srbijo!
Ventuno giorni dopo, a Belgrado, davanti alla Facoltà di Arti Drammatiche, una veglia per le vittime – annunciata alle autorità in conformità con la legge – si trasforma nel primo scontro. Arrivano uomini incappucciati, volano pugni e bastoni. Alcuni erano presumibilmente funzionari di alto rango del partito progressista serbo (SNS). Gli studenti non indietreggiano. Anzi, fanno esattamente l’opposto. Da quella notte le università diventano roccheforti. Le aule si svuotano di professori e si riempiono di sacchi a pelo e striscioni. Le lavagne si tappezzano di slogan, che passano di bocca in bocca: “Zastani, Srbijo!” – “Stop, Serbia!”.
Non è solo un lutto. È l’inizio di una sfida aperta a un sistema
politico che per molti è sinonimo di corruzione e menzogne.

Da lì, la miccia si propaga. Belgrado si blocca ogni venerdì, sempre alle 11:52, l’ora esatta del crollo. Quindici minuti di silenzio che fanno più rumore di una sirena. Novi Sad, Niš, Kragujevac, persino i piccoli centri seguono. La repressione arriva puntuale: le forze dell’ordine irrompono nei cortei, sgomberano gli atenei occupati e fermano gli studenti.
Il 6 dicembre, un’auto si lancia contro una folla di manifestanti in centro a Belgrado. Tra i feriti ci sono anche quattro musicisti della Filarmonica. È un segnale. La protesta non è più solo degli universitari, è destinata a tramutarsi in un movimento di risonanza nazionale.
Il 22 dicembre, decina di migliaia persone invadono Piazza Slavija, nella capitale serba. Aleksandar Vučić, presidente da oltre un decennio, prende la parola in diretta TV. «Potrei mandare le Cobra e spazzarli via in sei secondi», afferma. Vuole spaventare, ma ottiene l’effetto opposto. Gli studenti portano in piazza pupazzi di cobra con occhiali da sole e slogan ironici. Il meme diventa virale: il governo appare debole, ridicolo. La paura si trasforma in sberleffo.

Lo sciopero che ha messo offline la Serbia
Con l’inizio dell’anno nuovo, le aspirazioni degli studenti si fanno sempre più ambiziose. Vogliono trascinare l’intera società fuori dalla routine, vogliono bloccare il Paese.
E ci riescono.
Il governo tenta di bloccarli con le minacce: il primo ministro Miloš Vučević avverte i sindacati che chi sciopererà, rischierà il posto. Ma la reazione è opposta: si moltiplicano le adesioni. Il 24 gennaio viene indetto uno sciopero di “disobbedienza civile generale”. Potremmo definirlo uno sciopero dei consumi, proprio per sottolineare il blocco totale delle attività lavorative e commerciali. Perfino alcuni lavoratori del settore hi-tech abbandonano gli uffici di New Belgrade per unirsi agli studenti.
Quel giorno le proteste si sono concentrate davanti alla sede della televisione pubblica statale RTS, accusata di silenziare il dissenso. Quando sembrava che anche lì sarebbe calato il silenzio dell’apparato, accade l’imprevisto: dai piani alti della RTS compare uno striscione cucito dai dipendenti. “I lavoratori della RTS sono con gli studenti”.
Ma la notte più buia arriva il 28 dello stesso mese. A Novi Sad, cinque studenti vengono pestati selvaggiamente mentre affiggono manifesti contro il governo. Una ragazza finisce in ospedale con la mascella fratturata. La mattina seguente, il premier e il sindaco della città Milan Đurić rassegnano le dimissioni in diretta televisiva, ammettendo che gli aggressori provenivano da ambienti vicini al partito di governo.

I cortei che non si attengono alle istruzioni
Il dissenso dilaga, si radica e si fa più capillare.
Dopo l’aggressione a Novi Sad, i ponti della città vengono bloccati per ore, mentre dai villaggi rurali del sud partono marce che risalgono la Serbia per dirigersi verso le sue piazze simbolo.
Kragujevac, il 15 febbraio – giornata della Festa nazionale serba – , diventa l’epicentro: migliaia di persone si stringono nel corteo guidato dagli studenti di numerose città serbe.
Anche a Novi Pazar, città a maggioranza bonsniaco-musulmana, a dimostrazione di una lotta che, in un Paese diviso da decenni di tensioni etnico-religiose, assume un’accezione inclusiva più che nazionalista.
Il governo tenta di rispondere con cortei pro-regime, come quello di Sremska Mitrovica, costruiti a tavolino. Ma il movimento non si ferma. Con l’appoggio dei dipendenti, gli studenti occupano le sedi della RTS. Per 22 ore interrompono la programmazione, spalancando le porte a un gesto che non si limita più alle piazze.
La protesta è entrata nelle stanze che,
fino a poco prima, amplificavano solo la voce del potere.
L’ultimo avviso ai piani alti
Il 15 marzo, la protesta raggiunge il suo apice. Belgrado è attraversata dalla manifestazione più imponente dalla fine del regime di Milošević. Si riempie come non accadeva da decenni: oltre 100.000 persone marciano insieme,un corteo compatto che blocca la capitale. In tanti portano cartelli scritti a mano, altri sventolano bandiere.
Alcuni non hanno niente in mano, solo il passo lento di chi ha deciso di non restare più fermo. Il governo, chiuso nei palazzi, tace. E fuori, per strada, c’è un Paese che non sembra più disposto a fare lo stesso.
Lo scorso 21 marzo, il bilancio della tragedia di Novi Sad si aggrava: salgono a sedici le vittime.
L’ultimo ferito dal crollo, un diciannovenne, muore in ospedale. Sedici silenzi che ogni venerdì risuonano in tutta la Serbia.
Sono gli studenti a reggere la bandiera di questa Serbia che non si arrende. E lo fanno senza urlare, ma restando immobili, ogni venerdì, per quindici minuti. In silenzio. Ma è quel silenzio, ormai, che fa tremare chi sta al potere.
Perché non è più solo una battaglia contro chi ha lasciato crollare un tetto. È una sfida a chi ha lasciato crollare la fiducia.
Perché non è più solo una protesta. È un ultimatum che i cittadini serbi presentano a chi li ha traditi.
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