La palestina non esiste più
- Alessandro Morelli
- 6 feb
- Tempo di lettura: 4 min
Ma non i palestinesi.
Dal 1948, anno di fondazione di Israele, nel lembo di terra che va dal Mediterraneo al fiume Giordano hanno convissuto, in maniera turbolenta, due stati internazionalmente riconosciuti dall’ONU con la “Risoluzione 181” in cui si definivano uno stato israeliano e uno palestinese:
Dall'inizio del conflitto infatti sentiamo ripetere dichiarazioni da parte di politici, di destra o di sinistra, sulla necessità di rispettare la risoluzione dei “Due popoli, due stati”. Mentre la formula dei “due popoli, due stati” continuava ad aleggiare nelle cancellerie mondiali, ripetuta come una filastrocca ma senza realmente pensare a come renderla concreta, come al solito, arriva Trump a scombinare le carte: Via i palestinesi, il controllo di Gaza lo prendono gli Stati Uniti, occupandola militarmente qualora servisse, per costruirci dei bei resort e fare della Striscia la nuova Cote d’Azur del Medio Oriente… cosa potrebbe andare storto?

Il piano è stato spiegato in una conferenza stampa congiunta con il premier israeliano Netanyahu che, con sguardo compiaciuto, ha elogiato il tycoon come un uomo “dalle idee fuori dai parametri tradizionali”, alle quali “bisogna prestare attenzione” perché “possono cambiare la storia” e lo ha definito
“Il più grande alleato di Israele nella storia dei presidenti americani”.
Il piano di Trump si sposerebbe perfettamente con gli interessi israeliani e soprattutto con i desideri dell’estrema destra, che ha sempre rifiutato l’ipotesi dei due stati vedendo in Gaza una minaccia esistenziale. Gli esponenti più estremi del governo Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir, non hanno mai nascosto il disprezzo per il popolo palestinese e il sogno del “Grande Israele”, ovvero un unico grande stato ebraico configurabile solo con l’annessione dei territori palestinesi di Gaza, devastata dai bombardamenti dell’IDF, e della Cisgiordania, dove sono presenti numerosi insediamenti di coloni israeliani che l’ONU ha definito illegali.

Proprio l’ONU è stata citata nella conferenza stampa. I rapporti tra Israele e l’Organizzazione delle Nazioni Unite si sono incrinati a seguito della guerra: il segretario dell’ONU Guterres ha più volte criticato la gestione della guerra da parte dello Stato Ebraico che ha reagito definendo l’organizzazione internazionale antisemita, dichiarando il suo segretario “persona non gradita” in Israele e inserendo l’UNRWA, Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, nella lista delle organizzazioni terroristiche perché accusata di sostenere Hamas.
Per dimostrare ancora di più la vicinanza della nuova amministrazione Trump allo Stato Ebraico, il presidente repubblicano ha firmato un ordine esecutivo per far uscire gli Stati Uniti dal Consiglio delle Nazioni Unite dei Diritti Umani, accusati di essere parziali nei confronti di Israele, e lo stop ai fondi per l’UNRWA (Chissà se la Lega lo proporrà anche nel parlamento italiano).

Tornando al piano Trump, questo consisterebbe nel prendere possesso della striscia di Gaza, renderla una località turistica e spostare i palestinesi nelle vicine Giordania ed Egitto. Come sempre non sappiamo se Trump faccia sul serio o meno ma il piano ha oggettivi problemi strutturali; oltre agli ostacoli di ordine morale, su cui però la politica ha più volte chiuso gli occhi soprattutto in quel lembo di terra, ci sarebbero ovvi problemi di ordine organizzativo, diplomatico, geopolitico e securitario:
Al contrario di quanto dice Trump i palestinesi vogliono rimanere a Gaza: gli Stati Uniti quindi dovrebbero gestire delle vere e proprie deportazioni obbligando con la forza oltre 2 milioni di persone a migrare verso Giordania ed Egitto, che hanno già dichiarato che non intendono accogliere i profughi.
Dal punto di vista diplomatico e geopolitico invece, oltre a convincere il governo egiziano e giordano, dovrà essere d’accordo anche Mohammad Bin Salman, principe ereditario e primo ministro dell’Arabia Saudita. Il paese ha un peso importantissimo nella regione e da qualche anno si è avvicinato a Israele per la necessità comune di contenere l’Iran sciita. Pur non avendo firmato i Patti di Abramo (dichiarazione firmata nel 2020 con la mediazione degli Stati Uniti, proprio sotto la prima amministrazione Trump, tra Israele e alcuni Paesi arabi, tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, per la normalizzazione dei rapporti) l’Arabia Saudita e Israele hanno cominciato un percorso di riavvicinamento, ma questo piano potrebbe rappresentare un intoppo e a tal proposito il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Faisal bin Farhan Al Saud, ha dichiarato:
«Non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente».
Pur non interessandosi realmente del futuro dei palestinesi, l’Arabia Saudita (sunnita) vuole assumere il ruolo di paese leader del mondo musulmano (da qui la necessità di contenere l’Iran) e per farlo non può permettersi di abbandonare Gaza, sostenuta militarmente dalla sua principale rivale, la Repubblica Islamica di Teheran.

Infine dobbiamo considerare la questione securitaria: il risentimento accumulato negli anni dalla popolazione palestinese, esploso il 7 ottobre e riaccumulatosi nell’ultimo anno di guerra ha rinforzato Hamas, ma più che l’organizzazione stessa, ha consolidato il sentimento l’odio per il vicino israeliano. Tra quei due milioni di profughi che verrebbero divisi tra Egitto e Giordania ci sarebbero inevitabilmente figli, fratelli e padri di chi è stato ucciso a Gaza e vedrà in Hamas, o più in generale nella lotta armata, l’unica risposta alle sofferenze causate dalle bombe israeliane e dall’abbandono forzato dalla propria terra.
La semplificazione e l’eccessivo pragmatismo rischiano a volte di peggiorare la situazione, specie un conflitto che va avanti da oltre settant’anni e arrivato, probabilmente, a un punto di non ritorno. Una cosa è certa, anche qualora venisse applicato questo improbabile piano continueremo comunque a sentir parlare del conflitto israelo-palestinese semplicemente in un’altra forma, altrettanto violenta.

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