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Loyalty over quality

  • Alessandro Morelli
  • 23 dic 2024
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 23 dic 2024

La tendenza populista a

premiare la fedeltà


“Il sangue non è acqua”, questo proverbio esprime l’importanza dei legami familiari nella vita. Questo devono averlo capito molto bene Giorgia Meloni e Javier Milei.

Negli ultimi giorni si è parlato molto della concessione della cittadinanza italiana al presidente argentino Milei che vanta nel suo albero genealogico dei nonni calabresi, questo basta, per la legge italiana, affinché gli venga riconosciuta.

La vicenda ha inevitabilmente aperto il dibattito attorno alla concessione della cittadinanza italiana, con chi critica la scelta definendola uno smacco nei confronti delle migliaia di persone che dopo essere stati per anni in Italia vorrebbero ottenerla, ma che per colpa della legge sulla cittadinanza, basata sullo ius sanguinis, e della farraginosa burocrazia italiana non riescono ancora a ottenere.

Non è ovviamente difficile capire il motivo della concessione della cittadinanza al presidente argentino: il governo italiano infatti intende allacciare una solida partnership, diplomatica e commerciale, con lo stato sudamericano che vanta, per altro, profondissimi legami col Belpaese.


Ma questo articolo non vuole indagare i legami fra Argentina e Italia ma piuttosto la tendenza comune dei leader di partiti personalistici a premiare la fedeltà più della competenza. E cosa c’è di più fedele di un fratello o una sorella?

I casi di Milei e Meloni sono emblematici; entrambi hanno come maggior consigliere politico le rispettive sorelle, Karina e Arianna.

Seppur i due casi siano molto simili differiscono leggermente in quanto il primo ministro italiano non ha conferito alla sorella una carica istituzionale, bensì ha fatto di Arianna la figura più importante all’interno di FdI. Arianna Meloni infatti ricopre il ruolo di capo della segreteria politica e responsabile del tesseramento di Fratelli d’Italia, quindi nulla si muove all’interno del partito senza che lei lo sappia.

Milei, invece, ha nominato sua sorella Karina “Segretario generale della Presidenza della Repubblica” rendendola, anche de iure e non solo de facto, la sua consigliera principale.

Questi due sono i casi più estremi della tendenza, leggasi necessità, dei leader populisti a capo di un partito fondato esclusivamente sulla loro personalità.

Abbiamo citato Meloni e Milei ma la lista potrebbe allungarsi: Senza dover scomodare imperatori o dittatori del passato, basta affacciarsi oltre oceano, nella più grande democrazia del mondo, gli USA, dove Trump sta concedendo nomine, a chi si è mostrato più fedele nell’ultima campagna elettorale.

In particolare ha fatto discutere la nomina ad ambasciatore americano in Francia, generalmente il paese europeo con una politica estera più indipendente dagli Stati Uniti, tra gli alleati, quindi storicamente più avverso alle direttive di Washington, di Charles Kushner, consuocero del presidente eletto. Il tycoon ha motivato la scelta affermando “E’ un leader aziendale, filantropo e affarista formidabile, che sarà un forte sostenitore del nostro Paese e dei suoi interessi.” senza però citare nessuna esperienza diplomatica di Kushner.



Quest’atteggiamento non è riconducibile a una forma di nepotismo o a qualche scambio di favori; piuttosto a una necessità che questi “outsider” hanno e i motivi sono molteplici.

Per politici come Milei, Meloni e Trump, che hanno plasmato, o nel caso di Meloni e Milei creato, il partito a loro immagine e somiglianza è necessario che nessuno sfidi la loro leadership al proprio interno, cosa invece sistematica nei partiti tradizionali che spesso sono divisi in correnti.

Oltre alla piena fedeltà interna al partito, per questi leader è necessario piazzare figure a loro fedeli in ruoli all’interno del “palazzo”. Questo perché figure, generalmente definite populiste, riscontrano il favore delle urne mettendosi in contrapposizione con “gli altri”, “il palazzo” accusati di non stare dalla parte del popolo ma delle élite.

Quindi nel momento in cui le due parti si trovano a collaborare, lo fanno in una situazione di diffidenza reciproca e per evitare uno stallo o, come nel caso di Trump, un conflitto con gli apparati, il leader piazza suoi fedelissimi al loro interno. La collaborazione tra le parti è fondamentale per il funzionamento dello Stato perché tra la scrittura delle norme e la loro applicazione c’è il mare, il “palazzo”.

Infine azzarderei una supposizione, i tre politici citati nell’articolo vengono spesso criticati per non avere una classe dirigente adeguata. Il caso del governo Meloni è evidente, la premier infatti si trova quasi ogni settimana a dover gestire una polemica a seguito di una dichiarazione di un suo ministro, sottosegretario o parlamentare; Trump dal canto suo continua a nominare in ruoli chiave persone definite dai più “impresentabili” come Robert Kennedy Jr segretario del Dipartimento della Sanità o Kash Patel capo dell’FBI.

Che non sia una tattica per aumentare ancora di più la fiducia del leader? Far splendere il leader in mezzo alla mediocrità di chi lo contorna?

In una società che si deresponsabilizza sempre di più per attaccarsi alle azioni messianiche di un leader questa strategia sta vincendo ma quali saranno gli effetti sul lungo termine.



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