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Cos'è la Woke Culture

  • Mattia Todini
  • 17 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

E come ha influenzato la politica.


Uno spettro s’aggira per l’Occidente: è lo spettro del wokismo. Uno spettro proprio perché nessuno in fondo sa cos’è, com’è fatto, che forma può assumere e soprattutto chi può trarne giovamento.

Per un italiano il problema risiede innanzitutto nella traduzione del termine

inglese “woke”; questo, infatti, era originariamente il sinonimo nello slang afroamericano di awake, ossia sveglio.


La parola assume però una rilevanza politica tra gli anni ’20 e ’30 del ‘900 quando la stessa comunità afroamericana iniziò ad utilizzarlo, anche in ambito musicale, come monito: Era necessario “restare svegli” o, meglio, “tenere gli occhi aperti” sulle condizioni dei neri americani in un paese in cui ancora vigeva un rigidissimo sistema di segregazione razziale. Con il progressivo allargamento della platea interessata e coinvolta nelle battaglie per i diritti civili, il termine assumerà la connotazione di “persona bene informata sui fatti” riguardo a questo tipo di tematiche.



L’espressione è però sbocciata negli ultimi anni, assumendo tuttavia una carica ideologica sempre più forte; il wokismo, infatti, ha notevolmente influenzato certi ambienti della sinistra, quelli più tendenti al rosa che al rosso, fino a diventare il vessillo dei Social Justice Warriors, ossia coloro che si identificano come paladini della lotta per i diritti sociali e civili.

In questo pentolone si sono quindi uniti diversi ingredienti tutti atti alla difesa a spada tratta dell’inclusione e della rappresentanza di chiunque e la damnatio memoriae di chi, a prescindere dal periodo storico, contesto sociale e politico, si sia macchiato di atti razzisti o omofobi.


L’ideologia woke si è quindi associata alla cancel culture, la cancellazione di tutti quei prodotti culturali del passato che oggi offendono la nostra sensibilità, o al debellamento dell’appropriazione culturale, ossia l’utilizzo inappropriato di elementi tipici di una cultura o di un’etnia da parte di coloro che ne sono estranei.

Vengono abbattute statue, bloccata la lettura di determinati libri, infangata la memoria di personaggi, fino a quel momento, senza ombre.


Delineati i caratteri di questa idea fattasi ideologia, diventa difficile tratteggiare quali azioni siano effettivamente figlie del wokismo o quali siano legate ad una effettiva e giustificata tutela delle minoranze.

Quella che doveva essere un’arma a disposizione del Partito Democratico, prima americano e poi italiano, si è rivelata un enorme dramma irrisolto.

Il termine woke infatti è citato molto più dai conservatori che dai progressisti: Così come l’altrettanto stracitata (e ancor più fumosa e incomprensibile) teoria gender, anche la cultura woke è ormai diventata il cavallo di battaglia dei politici di destra di tutto il mondo.

Questi accusano i cosiddetti “guerrieri” di assumere posizioni troppo estreme e di voler imporre una “dittatura” del pensiero unico, ben celata sotto la maschera della difesa delle minoranze.



Il mondo conservatore imputa così al campo progressista di mettere a repentaglio la libertà di espressione (un vero e proprio “mondo al contrario” per citare un fiero nemico italiano del wokismo) e di distruggere le identità nazionali.

Non è un caso allora che durante l’ultima campagna elettorale per le presidenziali americane

la guerra al woke sia diventata centrale nella narrazione trumpiana.

L’inquilino della Casa Bianca si sa non ama i mezzi termini e quindi si è battuto duramente contro questo nemico ideologico, ad esempio a Phoenix (Arizona) dal palco di un suo comizio ha detto: “woke has to stop because along with everything else it’s destroying our Country. We’re going to stop woke. Woke is bullshit”. “This country will be woke no longer” ha dichiarato durante il suo ultimo discorso al Congresso.

92 minuti di applausi successivi.



Il Presidente inoltre ha subito fatto seguire alle parole i fatti, firmando due ordini esecutivi

che intendono mettere fine ai programmi DEI (diversity, equity, inclusion) che la precedente

amministrazione Biden aveva messo in campo per favorire l’inclusione nel governo federale.


E a sinistra? Potremmo dire che si fa quel che si può. La tutela delle minoranze è ormai una

colonna portante del mondo progressista, che cerca di combattere le ingiustizie non solo sul

piano economico ma anche su quello sociale e civile. Teoricamente l’iniziativa è degna di

nota e con un solido e utile fondamento, tuttavia in un Occidente in perenne crisi da anni, in

cui si deve lottare anche per garantirsi una vita dignitosa, questa battaglia è percepita più

come ideale che materiale: per questo spesso si sta rivelando più una zappa sui piedi che

una carta vincente.


Guardando a diverse tornate elettorali (sia statunitensi che europee) infatti appare chiaro

che la sinistra ormai sembra attecchire più nelle zone dove vivono cittadini agiati e con una

buona cultura che nelle periferie operaie; per i commentatori anche questo è stato uno dei

motivi della sconfitta di Kamala Harris alle già citate presidenziali del novembre scorso.

Negli Stati Uniti in particolare il voto ha evidenziato una spaccatura evidente tra le coste e

l’entroterra, talmente diverse da sembrare due entità a sè stanti.

Va però anche ricordato che queste crociate non vengono scelte dall’establishment,

nascono quasi sempre sui social network, dalla tastiera di privati cittadini, e monopolizzano il

dibattito. Su tutti svetta in questo senso la polemica legata al bacio non consensuale che il Principe Azzurro dà a Biancaneve alla fine della fiaba e del celeberrimo film animato della Disney. La polemica è partita “solamente” da due giornaliste che su una testata locale, il San Francisco Gate (California, massima espressione della cultura liberal-woke), recensivano l’attrazione dedicata al film nel parco Disneyland di Anaheim (Los Angeles) ma ha assunto proporzioni elefantiache rimbalzando fino all’Europa di social in social, di giornale in giornale.


Ma veniamo a casa nostra. Polemiche simili sono nate anche in Italia, riguardanti campi

diversi; ultimamente anche i due simboli patrii per eccellenza: il Tricolore e l’inno di Mameli.

La cantante Francamente ha sollevato la questione sull’inclusività dell’inno italiano, infatti,

sui suoi social,a seguito di un invito a cantarlo per aprire una cerimonia sportiva.


L’interprete però ha riservato parole non lusinghiere per “Il canto degli Italiani” (questo il vero

titolo del nostro inno nazionale), definendolo poco inclusivo nei confronti di diverse categorie

che in esso non troverebbero rappresentanza (donne, persone queer, di etnia non caucasica

o transgender), definendo infine “anacronistico” il nostro Tricolore.

Non è la prima volta che “Fratelli d’Italia”, l’inno non il partito, si trova nell’occhio del ciclone;

molti, infatti, non giudicano positivamente il linguaggio ottocentesco e bellicoso e personaggi

di rilievo hanno proposto la sua sostituzione: da Bettino Craxi a Umberto Bossi, non proprio

un aficionados del nostro Risorgimento, fino all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi,

il quale fece cantare a un coro di bambini “siam pronti alla vita” in luogo di “siam pronti alla

morte” durante una manifestazione.



La cantante ha scelto comunque di cantare il nostro inno nazionale nella sua versione

ufficiale, in quanto cambiarne le parole potrebbe far incappare nel reato di vilipendio alla

bandiera (art. 292 del Codice penale), volendo riaffermare con lo stile interpretativo la sua

posizione, e reclamare l’esistenza delle suddette minoranze. Naturalmente dall’altro lato

della barricata si sono immediatamente levati gli scudi in difesa di Mameli, in primis da parte

della Presidente del Consiglio Meloni e dal Vicepremier e Ministro dei Trasporti Salvini,

tessendo le lodi dei valori di unità e fratellanza che l’inno porta.


Ora, premesso che i simboli patrii non sono stati incisi sulla pietra come i Dieci Comandati

da Dio Stesso, e che quindi sopra di essi si può comunque discutere, è forse necessario

ribadire due semplici concetti: il tifo tra fazioni funziona allo stadio e non in politica e le

polemiche sono di per sé sterili e non producono frutti, a differenza di una discussione

argomentata e seria. Infine, oggi, forse ci si dimentica troppo spesso che leggere il passato

con gli occhi del presente non fa altro che favorire incomprensioni e malintesi.

La società è necessariamente figlia del suo tempo.

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