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La polizia violenta: mito o realtà?

  • Giulio Baglivi
  • 26 nov
  • Tempo di lettura: 20 min

Storia della polizia 

Il concetto di forza di polizia è un concetto relativamente moderno siccome nasce per come lo intendiamo noi solo tra il XVII e il XIX secolo, con la nascita dei moderni Stati-nazione e con l’origine di organi statali organizzati, come appunto il “corpo di polizia”. Prime forme di istituzioni di questo tipo in Europa si sviluppano a livello cittadino soprattutto nelle grandi capitali dei regni di Francia e Gran Bretagna, da allora la polizia si evolve diventando strumento dello Stato col fine di: mantenere l’ordine pubblico, prevenire o contrastare i crimini e in senso più ampio il controllo della popolazione. L’Italia che una volta unita nel 1861 si trova ovviamente a dover gestire nuovi vasti territori, che mai sono stati sotto il controllo sabaudo e che spesso vedevano con sfiducia i nuovi sovrani dovette ricorrere ad una migliore organizzazione delle forze di controllo urbano.

Proprio per l’integrazione di nuovi sistemi di leggi e per il controllo di popolazioni appena acquisite, dal 1861 i Carabinieri Reali (forze di polizia del regno dei Savoia) divennero forza di polizia nazionale con doppia natura: militare e di pubblica sicurezza. Mentre la polizia di Stato venne organizzata nello stesso anno sotto il Ministero dell’Interno, un corpo civile con funzioni di vigilanza urbana, indagine e sicurezza politica. Proprio in questo periodo, la polizia fungeva più da controllo politico-sociale, con l'obiettivo di mantenere l’ordine civile ed evitare rivolte o insurrezioni.


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Dalla sua fondazione, il corpo di polizia italiano ha subito molti cambiamenti: le ultime rivoluzioni si sono verificate proprio nel periodo post fascista e nel finire del '900. In particolare, il problema più grosso nel 46’ era la ricostituzione di un corpo poliziesco non politicizzato, come lo era sotto il fascismo: oltre alla riconferma dei compiti dei carabinieri che mantennero anche la loro doppia natura poliziotto-militare, fu deciso di creare altri corpi con compiti specifici, la Guardia di Finanza, la Polizia penitenziaria e la Polizia locale/municipale.


La legge n. 121 del 1° aprile 1981 però segna un’ennesima rivoluzione: la Polizia di Stato diventa corpo civile ad ordinamento civile, non più militarizzata; vengono riconosciuti loro diritti sindacali e richiesta maggiore professionalizzazione; vengono più nettamente definiti e separati i loro compiti rispetto ai carabinieri e il resto degli altri corpi. In pratica dal 1981 il poliziotto ha i seguenti compiti: garantire ordine e sicurezza, investigazione, contrasto alla mafia e tutela dei diritti dei cittadini.


Oggi in Italia convivono 3 corpi principali di polizia di natura civile cioè: Polizia di Stato (alle dipendenze del ministro dell’interno), Polizia penitenziaria (sotto il ministro della giustizia) e Polizia locale (coordinata dai comuni). La differenza tra le 3 è semplice: la prima ha il compito di mantenere l’ordine pubblico e si impegna nelle investigazioni, la seconda del mantenimento dell’ordine nelle carceri e la terza della viabilità e del rispetto delle leggi dell’edilizia urbana e del commercio locale come bar, negozi o ambulanti. 


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Chi controlla i controllori?

John Locke, uno dei padri fondatori del pensiero liberale e ideatore dello Stato come garante della sicurezza e della libertà individuale, crede che l’uomo nello “stato di natura” (cioè in una realtà sociale senza istituzioni e organizzazioni statali) sia in uno stato si di libertà ma di libertà insicura. A tal proposito l’uomo stipula un patto sociale (“contratto”) che porta alla creazione dello Stato sovrano a cui affida il potere e 3 compiti principali: garantire i diritti fondamentali (vita/libertà/proprietà), proteggere i deboli dai forti e far rispettare la legge comune. In questo concetto la polizia non è espressamente citata dal Locke, ma egli la descrive indirettamente come potere esecutivo di uno Stato, dando così l’origine filosofica dell’idea di polizia. Quindi, per Locke “la polizia” nasce come estensione esecutiva dello Stato, col compito di proteggere i cittadini dai soprusi, dalle violenze e dalle ingiustizie. Seguendo una visione Lockiana, la polizia dovrebbe essere un organo virtuoso quasi eroico, che lavora alle dipendenze del cittadino, non come braccio armato del controllo del governo. Questa visione estremamente romantica, è stata spesso smentita dall’uso che gli Stati fanno della polizia e dal comportamento della polizia stessa:


Quis custodiet ipsos custodes?", famosissima frase latina che si traduce in: “chi controlla i controllori?”, domanda a cui un paese democratico deve sempre avere risposta.


Hannah Arendt ne “Le origini del totalitarismo” descrive come uno Stato con un organo di polizia non democraticamente controllato, possa far diventare la polizia strumento irrefrenabile di oppressione. Il problema del controllo dei controllori è un problema che anche in Italia ha scatenato un acceso dibattito politico: sempre in conseguenza a gravissimi casi di eccessi da parte della polizia, molte volte non solo colpevole ma anche del tutto restia nel garantire l’efficacia d’indagini interne al corpo, come nei casi del G8 di Genova e il massacro della Diaz, il caso Cucchi e il caso Aldrovandi.


Questi casi, che verranno presentati più approfonditamente in seguito, sono connessi non solo da una condotta criminosa e in alcuni di questi casi omicida, ma anche dal sistematico meccanismo che ha adottato l’istituzione polizia per eliminare, nascondere o fabbricare prove. Questi casi sono simbolo di ciò che può accadere ad uno Stato dove il controllore è sorvegliato solo dalla fiducia che il cittadino ha nelle istituzioni. Come vedremo in tutti e 4 i casi: la politica, le istituzioni e l’organo della polizia nella sua totalità hanno collaborato sistematicamente alla difesa degli agenti, al mascheramento della verità e di conseguenza in difesa dei colpevoli.


L'articolo si concentrerà, più che sulla presentazione di un quadro cronologico e giuridico degli eventi, sulla crudeltà dei reati commessi, da chi ha giurato di difendere i cittadini e dal tragicomico comportamento dei loro colleghi e della classe politica

Saranno evidenziati gli aspetti più gravi, che in Italia, attanagliano il corpo di polizia e la politica: il primo è un intrinseco cameratismo che finisce per sfociare in atteggiamenti di omertà, che hanno più riscontro nella mafia che nella lealtà; la seconda, un totale terrore del criticare le forze dell’ordine, sia per appartenenza politica, sia per paura di esporsi su temi così radicati. In Italia è infatti palese come le istituzioni stiano sempre e in qualsiasi caso dalla parte della polizia, e ciò rivela una totale inadeguatezza del principio di spirito critico e difesa delle libertà dei singoli cittadini, oltre che diventando così complici dei reati che hanno commesso i singoli individui che hanno difeso.


Le circostanze cambiano in ognuno dei 4 casi che tratteremo, ma il grande filo conduttore è il meccanismo di insabbiamento messo in moto dalle forze dell’ordine. Partiamo con la gestione estremamente violenta del G8 e il massacro della scuola Diaz: entrambi i casi si sono verificati durante le giornate di protesta a Genova, tenute in ottica anti-G8 nel luglio del 2001. I casi della Diaz e della morte di Carlo Giuliani, che a 23 anni morì solo sulle strade di Genova, ferito a morte da colpi di arma da fuoco, per quanto uniti dalla volontà delle istituzioni di mascherare la verità, sono strutturalmente diversi dai casi delle uccisioni di Cucchi e Aldrovandi.

infatti i primi ottennero una fortissima risonanza mediatica e politica fin da subito perché accaddero sotto gli occhi di centinaia e centinaia di testimoni; mentre per i secondi dove le forze dell’ordine fin da subito in modo automatico e indipendente, si impegnano a creare una narrazione favorevole alla forze dell’ordine, eliminando le prove e occultando la verità.


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Il caso Cucchi e il Caso Aldrovandi

15 ottobre 2009, ore 23:30, cinque carabinieri in servizio presso la stazione di Roma Appia, fermano 2 ragazzi perché colti in attività sospette, Stefano Cucchi, 31 anni, è uno dei due. Verrà trovato in possesso di 20 g di hashish e 3/4 dosi di cocaina. Dopo una perquisizione in casa con esito nullo, Stefano, in condizioni ancora normali, fu portato da 3 carabinieri in caserma alle 2:15 della notte stessa. La mattina seguente avvenne la procedura di  convalida dell'arresto, ed il contestuale giudizio in direttissima presso il tribunale di Piazzale Clodio, qui Cucchi appare già molto ferito e claudicante, iniziano i primi errori delle istituzioni: infatti Stefano risultava, in questo procedimento come “straniero senza fissa dimora”, nonostante egli fosse non solo italiano, ma anche residente nella Capitale. In Seguito alla conferma dell’arresto venne portato al carcere Regina Coeli.


Alle 23:00 del 16 ottobre, lamentando dolori, venne trasferito al pronto soccorso del Fatebenefratelli, dove furono registrate le seguenti lesioni: ecchimosi alle gambe, al volto (con frattura della mandibola), all'addome con ematuria e al torace (con frattura della terza vertebra lombare e del coccige), nonostante i consigli dei medici, Stefano rifiuta il ricovero.

Il 22 ottobre, nel reparto medico del carcere, a soli 31 anni e con 37 kg di peso corporeo, Stefano cucchi muore, senza aver più visto la famiglia, se non il padre, al processo di convalida dell'arresto, il 16 ottobre.


Questa storia però, come tutti sappiamo, nasconde ancora più marcio di quello che traspare dalla velocissima ricostruzione che fanno in modo preliminare le forze dell’ordine, infatti la famiglia di Stefano, per quanto arrabbiata con il ragazzo per essere ricaduto nel giro della droga, aveva tutto il diritto di vederlo. I famigliari rivedranno Stefano solamente da morto, sul letto d'obitorio, irriconoscibile per tutte le violenze subite e per l’enorme quantità di peso perso.


La polizia negò fin da subito l’uso di qualsiasi forma di violenza e imputò la morte a un supposto malore dovuto dalle conseguenze di assunzione di droga, la macchina dell’insabbiamento assume qui il primo aspetto che ritroveremo anche nel caso Aldrovandi:


un ragazzo è morto,e la storia della droga e dell’alcol basta all'opinione pubblica per perdere l’interesse o criminalizzare una vittima.


Carlo Giovanardi (capolista per il popolo della libertà) dichiarò che Cucchi era solo un ragazzo morto di droga e anoressia, aggiungendo a ciò insinuazioni riguardanti una presunta sieropositività, affermazione che oggi definiremmo "fake news". Già da qui possiamo denotare il secondo aspetto principale della macchina del fango, la politica in questi processi, sia per Cucchi che per Aldrovandi, tenterà più volte di o sminuire l’accaduto, ricostruendo una “classica” morte dell’ennesimo “tossico abbandonato da tutti”.

La politica, in questi casi, ha cercato subito di imprimere nella testa del pubblico solo una possibilità, la polizia uccide solo chi se le cerca, ovvero tossici e delinquenti.


La narrazione macabra e grottesca che va per la maggiore è che: se un ragazzo si droga, spaccia o commette un qualsiasi tipo di reato, potrebbe incorrere nel pericolo di essere ucciso per il  bene dei cittadini; per la politica “il poliziotto ha sempre ragione”.

Con l’inizio delle indagini sul caso Cucchi, la ricostruzione della polizia crolla: emergono importanti omissioni, dichiarazioni mozzate e spesso ritrattate. Alle fine, uno dei carabinieri presenti la notte del primo pestaggio, il sign. Tedesco, confessa tutto insieme ad altri testimoni che confermano il trattamento violento che continuò in carcere, con guardie carcerarie che picchiavano violentemente il povero Stefano, che intanto perdeva peso e forze a vista d’occhio, e se ciò non bastasse, lo isolarono non permettendogli di avere compagni di cella.


Ci sono ben 3 testimoni del trattamento riservato a Stefano in carcere: Marco Fabrizi, Annamaria Costanzo e Silvana Cappuccio. Per quanto la prima inchiesta sembrò essere stata una battaglia infruttuosa, la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, continuò a lottare insieme ai genitori, i quali purtroppo morirono durante i lunghi anni del processo e senza giustizia per loro figlio. llaria Cucchi, nel suo percorso si scontrò più volte con dichiarazioni dei politici italiani schierati con le forze dell’ordine, esempi eccellenti sono Giovanardi o Salvini che alla domanda di un giornalista che chiedeva se volesse chiedere scusa per l’affermazione “non credo che i carabinieri si divertano a pestare la gente”, il politico rispose: “se qualcuno l’ha fatto ha sbagliato e pagherà".

Quel “SE” è un goffo tentativo di sostenere le forze dell’ordine, nonostante al tempo dell’affermazione non ci fossero più dubbi, almeno per la legge, che Stefano Cucchi morì quel giorno per colpa del pestaggio dei carabinieri e per colpa dei medici e infermieri che lo dimisero senza curarlo. In coda a queste affermazioni aggiunse: “questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque e io lotto la droga in ogni piazza”. Questa asserzione evidenzia l’aspetto più grottesco dei casi di abusi della polizia: un rappresentante del popolo che di fronte all'uccisione di un ragazzo di 31 anni massacrato dalle forze dell'ordine, non spende nessuna parola di sdegno verso quei criminali in divisa, che scelsero di picchiare per interminabili minuti Stefano Cucchi lontano dalla famiglia in tutti quei giorni, che sono stati per lui come un “miglio verde”, partito col suo arresto il 15 ottobre alle 23:30 e conclusosi all’alba del 22 ottobre 2009.


Il 4 aprile 2022 la Corte Suprema di Cassazione ha condannato in via definitiva per omicidio preterintenzionale i carabinieri Di Bernardo e D'Alessandro, riducendo però loro la pena a 12 anni di reclusione.


Il secondo caso, forse ancora più drammatico e inquietante, è quello dell'omicidio di Federico Aldrovandi. La sera del 25 settembre 2005, dopo aver trascorso la serata con gli amici, il giovane si fece lasciare in una via vicino a casa sua a Ferrara. Le prime ricostruzioni descrivevano Federico come una persona agitata e nervosa, presumibilmente sotto l'effetto di alcol e droghe. Questa versione dei fatti venne ripresa dai quattro agenti delle due volanti intervenute, che raccontarono di un ragazzo estremamente agitato che aveva attaccato due poliziotti con colpi di karate.

Tuttavia, l'esame tossicologico condotto il 28 febbraio da consulenti privati incaricati dalla famiglia portò a risultati completamente diversi, tanto da richiedere un terzo esame. I due test mostrarono esiti quasi del tutto opposti rispetto alla versione ufficiale: il tasso alcolemico risultava di 0,4 g/L, persino sotto i limiti consentiti per la guida, mentre i livelli di ketamina erano 175 volte inferiori alla soglia di pericolosità, probabilmente residui di un uso risalente nel tempo. Tali valori non giustificavano in alcun modo lo stato di agitazione descritto dalle forze dell'ordine.

Inoltre, venne smentita la causa della morte descritta inizialmente: era impossibile che le quantità di sostanze riscontrate potessero aver provocato un'overdose. La vera causa del decesso fu individuata nella forte pressione esercitata sul torace del ragazzo, che gli impedì di respirare. Federico, che all'epoca aveva 18 anni, fu ritrovato con 54 lesioni ed ecchimosi, tra cui diverse ossa fratturate e i testicoli schiacciati. Fu proprio quel corpo martoriato e segnato dalle percosse ripetute a spingere la famiglia ad intraprendere una battaglia contro le enormi bugie e menzogne costruite quella mattina.


Le forze dell'ordine impiegarono cinque ore per notificare la morte alla famiglia Aldrovandi.


Cinque ore durante le quali il figlio era già morto, mentre i genitori, ancora alle 11:00 di quella mattina, non sapevano dove si trovasse né quali fossero le sue condizioni. Fortunatamente, quella mattina una donna camerunese, che inizialmente aveva avuto paura di testimoniare per timore di compromettere il suo permesso di soggiorno, trovò il coraggio di raccontare ciò che aveva visto: aveva sentito il ragazzo gridare in cerca di aiuto tra diversi conati di vomito e aveva assistito alla scena di due agenti che lo tenevano immobilizzato a terra mentre veniva colpito con forti manganellate e calci.

Durante il processo emerse che due manganelli di ordinanza erano stati spezzati dai ripetuti e violenti impatti sul corpo del ragazzo. Inoltre, dalle indagini emersero vari elementi incoerenti: il Pubblico Ministero non aveva effettuato un sopralluogo sulla scena del decesso; non era stata sequestrata l'automobile sulla quale, secondo gli agenti, Aldrovandi si sarebbe ferito; non erano stati sequestrati i manganelli, di cui due erano rotti; infine, il nastro contenente le comunicazioni fra il 113 e la pattuglia era stato messo a disposizione della Procura soltanto molto tempo dopo. Tutti questi elementi portano alla luce una questione particolarmente grave ed evidente: nell'immediato seguito dell'uccisione di Federico, iniziò immediatamente una campagna di ricostruzione fuorviante, se non del tutto falsa, degli accadimenti e delle circostanze dell'incontro.


A ciò si aggiunse tutta una serie di manovre di depistaggio e insabbiamento, svolte in maniera così ben organizzata che diverse persone, tra cui la madre di Federico e altre persone che in futuro vissero casi simili, come Ilaria Cucchi, ipotizzarono l'esistenza di un sistema procedurale funzionante per l'occultamento della verità e la difesa reciproca tra forze dell'ordine.

Ciò che rimane certo è che un ragazzo non ubriaco e non sotto l'effetto di grandi quantità di stupefacenti, a pochi passi da casa, fu fermato e picchiato in modo brutale da due agenti.


Neppure l'arrivo di un'altra volante riuscì a salvarlo. Federico, quella mattina, mentre si dirigeva verso casa, morì. A 18 anni non rivide mai più sua madre e suo padre. Le forze dell'ordine sfogarono su di lui, per motivi mai chiariti, una furia così eccessiva da portare non solo alla rottura di due manganelli, ma alla tragica morte del giovane.


Il 21 giugno 2012, la IV sezione penale della Corte di Cassazione rese definitiva la condanna a tre anni e sei mesi di reclusione per omicidio colposo con "eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi" nei confronti di Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri.


A questi venne quindi riconosciuto soltanto un eccesso nell'uso delle armi, che pure era stato considerato legittimo secondo la Corte di Cassazione. È opportuno riflettere sul significato che questa condanna riveste e sulle sue conseguenze pratiche. I quattro carabinieri, che alla fine scontarono soltanto sei mesi grazie all'indulto, tornarono in servizio con mansioni amministrative. Il 25 settembre 2005 a Ferrara morì un ragazzo, ucciso da un pestaggio inflitto dalle forze dell'ordine che colpirono barbaramente e ripetutamente in tutto il corpo un diciottenne. Quei poliziotti, che hanno ucciso il ragazzo e, ancora più simbolicamente, hanno mentito, rimentito e sbeffeggiato le procure che indagarono seriamente, prima descrivendo un ragazzo esagitato che attaccava con colpi di karate, poi trasformandolo in un pazzo autolesionista che si sarebbe inflitto 54 lesioni, compresa una lesione allo scroto, e sostenendo che per puro caso due manganelli difettosi fossero in dotazione quella notte, non videro queste bugie bastare a provare il loro presunto delitto.

Lo Stato decise che quei poliziotti avevano agito sostanzialmente bene, con la sola colpevolezza di aver ecceduto nell'uso legittimo della loro forza, come se fosse soltanto la morte del ragazzo a costituire il problema.


Cosa sarebbe successo se il ragazzo con 54 lesioni fosse tornato a casa? Sarebbe stato considerato uso legittimo della violenza? Oppure avrebbero scontato meno di quei sei mesi?

Dobbiamo considerarci fortunati se di notte incontriamo poliziotti che utilizzeranno su di noi un uso legittimo della forza? Dobbiamo preoccuparci che ci siano poliziotti che potrebbero, se esagerano, riempirci di botte fino ad ucciderci? Quando sono solo di notte e passa una volante in cerca di un sospettato, devo aver paura che non ci siano testimoni?.


La vera domanda da porci, indagando questi casi è: quante volte, prima dell'invenzione dei social media, che tanto hanno contribuito a prevenire queste situazioni, ci sono stati casi di morti sospette in cui la macchina dell'insabbiamento ha funzionato? Quante volte sarà successo che un Federico Aldrovandi, mentre camminava per tornare a casa, sia stato ucciso di botte, incolpato e abbandonato dalle istituzioni che ne hanno, nel frattempo, infangato per sempre il ricordo?

La vera questione è davvero "chi controlla i controllori?". Le body-cam in America sono state introdotte proprio per evitare questi tentativi cameratistici di copertura del collega. Inserire in dotazione a ogni volante e poliziotto una body-cam, facendo in modo che nell'eventualità in cui questa sparisse o non funzionasse in momenti critici si perda il principio di maggiore affidabilità che detiene un pubblico ufficiale, potrebbe essere una soluzione. In aula di tribunale, infatti, la parola del pubblico ufficiale, quale rappresentante del mantenimento dell'ordine come impegno morale, ha maggior valore della parola del libero cittadino. L'eventuale inserimento di un sistema di body-cam potrebbe garantire una prospettiva oggettiva almeno di alcune circostanze fattuali.

Tuttavia, la body-cam non risolve tutti i problemi emersi nell'affrontare questo tema. Questi sistemi che appaiono ben oleati e rodati per l'insabbiamento di veri e propri crimini vanno studiati, analizzati e combattuti da una parte delle forze dell'ordine che dall'interno riescano a svincolarsi e ridefinire la moralità della divisa. Un altro aspetto più volte affrontato e sottolineato è l'introduzione nociva e ignorante dei discorsi politici. Più volte la politica, sia di sinistra che di destra, ha abbracciato, sfruttato o compromesso indagini di questo tipo con dichiarazioni spaventose o, peggio ancora, di puro stampo da stadio. Siamo arrivati a usare un processo per l'omicidio di un ragazzo per "lottare contro la droga", quando non solo questo non c'entra nulla con la decisione di un gruppo di uomini di uccidere un giovane, ma crea un discorso pubblico nocivo, dannoso non solo per la credibilità del nostro Paese e della nostra società, ma anche per le indagini, che rischiano di essere condotte con fretta e superficialità a causa della pressione politica.

Federico e Stefano sono morti più volte durante gli anni dei loro processi: sono morti nella realtà, sono morti a ogni menzogna dei colpevoli e dei complici, sono morti a ogni dichiarazione che ha visto scagionare o giustificare l'operato di criminali, che ha visto sminuire la gravità delle loro azioni o addirittura renderle meno gravi in virtù dello status delle vittime.


Come se uccidere la persona più dimenticata dalla società sia più legittimo e comprensibile se compiuto da una forza dell'ordine.


In un Paese dove la criminalità organizzata controlla aspetti cardine della struttura sociale, la politica e le istituzioni talvolta simulano i principi fondatori delle stesse associazioni che nominalmente dovrebbero combattere.

Ecco una delle dichiarazioni shock di Carlo Giovanardi alla trasmissione radiofonica "La Zanzara", riferendosi alla foto del corpo martoriato mostrata dalla madre di Federico Aldrovandi. Il politico affermò: "Quella macchia rossa che è dietro è un cuscino, non è sangue quello là". Una frase gelida che aprì un processo per diffamazione ai danni di Giovanardi, il quale si difese ai microfoni dei vari giornali che richiesero suoi commenti invocando la "libertà di opinione".


La tragedia che fu il G8 di Genova

Il G8 (Gruppo degli Otto) era un forum internazionale che riuniva i capi di Stato e di governo delle otto maggiori potenze economiche mondiali, con l'obiettivo di discutere questioni di natura finanziaria, economica, ambientale e di sviluppo generale. In sostanza, costituiva una riunione delle forze egemoni mondiali con lo scopo di pianificare l'economia globale. L'incontro svoltosi a Genova nel luglio del 2001 rimase nella storia per l'eccezionale concentrazione di manifestanti giunti da ogni angolo del globo, non solo dagli otto Paesi membri del G8, Italia, Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Canada, Giappone e Germania. Le tensioni non erano state solamente previste, ma sistematicamente studiate. Il governo italiano, allora guidato da Silvio Berlusconi come presidente del Consiglio, aveva organizzato un imponente apparato di contenimento con l'ordine di gestire e, in casi estremi, contrastare i manifestanti. A queste forze di polizia fu messo a disposizione un armamentario più simile a quello di una guerriglia che di un'operazione di ordine pubblico: furono forniti numerosi blindati, un nuovo tipo di manganelli, un innovativo agente per la dispersione delle folle, e i ranghi delle unità presenti nel comune di Genova furono significativamente incrementati. Sebbene tali precauzioni fossero comprensibili secondo una certa logica, occorre considerarle nel contesto di una quasi totale assenza di addestramento aggiuntivo per le nuove forze schierate, circostanza che provocò numerossimi errori nella gestione e nella comunicazione: cariche non coordinate, deviazione di cortei pacifici verso assembramenti violenti, e persino attacchi a cortei esclusivamente pacifici scambiati per violenti.

Il numero dei feriti è praticamente incalcolabile data l'ovvia interferenza delle amministrazioni e della politica, ma si aggira intorno alle centinaia, molti con ferite gravi, fratture ossee e perdite significative di sangue. Quanto ai decessi, il bilancio è purtroppo noto: una sola vittima, Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di arma da fuoco esploso durante l'assalto di una camionette. All'interno del veicolo si trovava il carabiniere Mario Placanica, il giovane responsabile di non aver sparato verso il cielo, come previsto dall'addestramento al fine di disperdere la folla, bensì direttamente al volto del manifestante Carlo Giuliani. Il fatto risultò aggravato dal successivo tentativo di ricostruire la dinamica come un incidente dovuto alla deviazione del proiettile in volo.

La politica tuonò contro i manifestanti durante tutto il G8. Sebbene l'opposizione cercasse di tracciare un quadro più complesso dei fatti, nessuno si schierò in modo così deciso nella difesa delle forze dell'ordine.


Un carabiniere in preda al panico che presumibilmente uccise un ragazzo durante una manifestazione gestita male, in una giornata in cui le forze non seppero controllare né la folla né le proprie emozioni. Ancora una volta la politica abbandonò i cittadini, riaffermando la fedeltà alla divisa.


Fu tuttavia nei giorni successivi che si consumò il peggiore massacro perpetrato dalla polizia nella storia dell'Italia del dopoguerra moderno.

Nella notte del 21 luglio 2001, nel complesso scolastico Diaz-Pertini e Pascoli, in quell'occasione adibito a centro stampa del coordinamento del Genoa Social Forum, fecero irruzione i Reparti Mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo di alcuni battaglioni dei Carabinieri. Furono fermati 93 attivisti, di cui 63 portati in ospedale, tre in prognosi riservata e uno in coma. Le immagini riprese dal primo giornalista ad entrare nella struttura, Gianfranco Botta, fecero il giro del mondo: testimoniavano quello che il vicequestore Michelangelo Fournier definì lo scenario di un pestaggio da "macelleria messicana". Finirono sotto accusa 125 poliziotti, compresi dirigenti e capisquadra. I procedimenti penali aperti per le responsabilità nelle violenze, le irregolarità e i falsi nelle ricostruzioni ufficiali si protrassero per tredici anni, concludendosi nella maggior parte dei casi con assoluzioni, dovute all'impossibilità di individuare i diretti responsabili o all'intervento della prescrizione dei reati. Solo nell'aprile del 2015 la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato lo Stato italiano al pagamento di 45.000 euro di risarcimento nei confronti di Arnaldo Cestaro, uno dei feriti che aveva fatto ricorso alla Corte, evidenziando violazioni degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, relativi alla tortura, alle vessazioni e alle condizioni degradanti e inumane. Il codice penale italiano, non prevedendo il reato di tortura, non ha potuto condannare i colpevoli su tale capo di imputazione. Il 22 giugno 2017 la medesima Corte ha nuovamente condannato l'Italia per i fatti della scuola Diaz, riconoscendo che le leggi dello Stato risultano inadeguate a punire e prevenire gli atti di tortura perpetrati dalle forze dell'ordine.

Tali condanne della Corte Europea per i Diritti Umani rivelano il persistere di una dimensione omertosa e inadeguata nell'organizzazione istituzionale italiana, con uno Stato che mal regola e talvolta ignora le possibili violazioni commesse dalle forze dell'ordine. Emerge, inoltre, come in Italia perduri una visione pericolosamente eroica e garantista delle forze dell'ordine, percepite come infallibili, sempre dalla parte della ragione e difficilmente perseguibili anche dal punto di vista legale. Non solo molti furono assolti o puniti con semplici richiami e lunghe procedure amministrative, ma moltissimi non furono neppure identificati, poiché mai fu accertato il vero numero delle forze dell'ordine intervenute. Come di consueto, come si è osservato ripetutamente nelle storie sin qui raccontate, ciò dovrebbe costituire prova dell'ipotesi di un meccanismo organizzato e sistematico di insabbiamento, ben rodato e noto a tutte le forze dell'ordine, che ripetutamente nella storia italiana recente e non ha permesso il parziale occultamento di crimini della polizia.

Questo dovrebbe spingere non a condannare in toto la divisa, che rimane uno degli organi più importanti dello Stato italiano, deputato a garantire la sicurezza pubblica, bensì a richiedere con urgenza e immediatezza sistemi di tutela del cittadino, metodi di controllo sui singoli tutori della giustizia e un sistema di indagine e procedimento meno ermetico e chiuso. In Italia, infatti, alti ranghi della polizia possono interferire nell'operato investigativo, fatto che si è verificato più volte. Tornando a Genova, in conclusione, parliamo di come manifestanti e giornalisti provenienti da ogni continente si trovavano a Genova in quel momento, molti stranieri si ritrovarono alla Diaz quella notte. Praticamente gli occhi del mondo intero erano puntati sull'Italia.

Poche ore prima della mezzanotte, le forze dell'ordine in tenuta antisommossa fecero irruzione nella scuola Diaz-Pertini e Pascoli con l'obiettivo dichiarato di arrestare elementi violenti che nei giorni precedenti avevano creato pericolosi disordini nei numerosi cortei, i cosiddetti "black bloc". Questo sospetto era fondato su malinterpretazioni di prove e avvenimenti verificatisi nelle vicinanze della Diaz, nonché sulla pressione mediatica per ottenere un numero più consistente di arresti. All'interno della struttura, tuttavia, non fu mai rinvenuto alcuno strumento di violenza né alcuna molotov. L'irruzione iniziò subito in tragedia. Il primo contatto avvenne tra un giornalista inglese e le forze di polizia in tenuta antisommossa: il giornalista fu aggredito così violentemente da cadere in coma. Questo non placò le forze dell'ordine che, creato un varco all'interno della scuola contenente soltanto attivisti pacifici e giornalisti, procedettero a pestare, aggredire e massacrare innocenti manifestanti, molti dei quali già all'interno dei loro sacchi a pelo pronti a dormire. Il risultato furono decine di arresti, la gran parte dei quali feriti o direttamente ricoverati in ospedale in prognosi riservata, incluso un uomo in coma. Nessun'arma fu trovata, nessun black bloc fu arrestato. Allora perché si parla di depistaggio? Potrebbe sembrare solamente un gravissimo errore conclusosi in tragedia, tuttavia gli sviluppi successivi della vicenda rivelano tutt'altro.


Resisi conto della gravità dello sbaglio commesso, le forze dell'ordine tentarono di rimediare creando quelle che soltanto a seguito di un'indagine approfondita si riveleranno essere prove interamente false. Infatti, furono inseriti attrezzi da lavoro edile proveniente da un cantiere contiguo alla scuola dalle forze stesse. Non contenti, furono aggiunte anche molotov che la polizia aveva precedentemente rinvenuto in altri luoghi della città ligure. Infine, nel tentativo di giustificare l'incredibile violenza barbara esercitata, fu presentato un giubbotto antisommossa lacerato da colpi di coltello. Secondo la dichiarazione delle forze dell'ordine, il responsabile sarebbe stato fermato, tuttavia fu rilasciato e mai identificato. L'agente che avrebbe subito l'aggressione fu successivamente accusato di falso e calunnia: i periti stabilirono che il taglio sul giubbotto del poliziotto era stato praticato artificialmente in un momento successivo ai fatti.

Quasi nessuno pagò realmente per questi crimini. Non fu trovato nemmeno un black bloc. Le vittime innocenti furono decine. L'Italia ne uscì fortemente compromessa dal punto di vista politico internazionale. La maggior parte dei poliziotti coinvolti uscì indenne o pagò in modo estremamente ridotto grazie ai numerosi indulti. La politica rimase ancora una volta saldamente schierata a fianco delle forze dell'ordine.


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Quando vi troverete nella condizione di esprimere la vostra opinione sulle forze dell'ordine, non abbiate timore di criticare un sistema raramente regolato, controllato o modificato. In questo Paese è spesso considerato quasi terroristico criticare le modalità operative della polizia, tanto che persino indagare sull'operato delle forze di polizia risulta frequentemente pregiudizievole. Domandarsi se la polizia sia positiva o negativa, buona o cattiva, rappresenta la domanda sbagliata. La vera questione dovrebbe essere: conoscendo i fatti appena esposti, come possiamo rendere un organo così cruciale per lo Stato più efficiente, più sicuro, più controllabile e meno vulnerabile all'infiltrazione di individui criminali? Individui che non dovrebbero mai ricoprire il ruolo puro e vitale di tutore della legge. In uno Stato dove perfino i tutori della legge incutono timore nel buon cittadino, come si può aspirare a una qualità della vita sufficientemente elevata da garantire un quieto e sereno vivere?

 
 
 

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