top of page

Vent’anni di sanità italiana: il cantiere infinito della salute pubblica

  • Anna Arfè
  • 28 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.» (Articolo 32, Costituzione italiana)

L’articolo 32 è uno dei capisaldi della nostra democrazia. Nella sua semplicità racchiude una visione di Paese: la salute come bene comune, non come privilegio o servizio a pagamento. Ma a oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, quella promessa appare incrinata.

In Italia, la sanità è sempre stata un termometro politico: Quando i conti pubblici scricchiolano, si taglia qui. Quando arriva un’emergenza, si promette di ripartire da qui. Da vent’anni il Servizio Sanitario Nazionale vive in questa oscillazione:


tra universalismo proclamato e disuguaglianze praticate, tra annunci di riforme e la realtà quotidiana di chi non trova un medico o aspetta mesi per una visita.


ree

Gli anni Duemila: l’epoca dei conti in ordine

A inizio millennio la parola d’ordine era “aziendalizzazione”. Le Asl diventano strutture manageriali, le Regioni ottengono maggiore autonomia a seguito della riforma del Titolo V e chi spende troppo finisce commissariato. Nascono quindi i piani di rientro: Calabria, Lazio, Campania, Sicilia e Molise devono presentare una strategia per rientrare nei parametri. Una terapia d’urto per risanare i bilanci, ma che spesso uccide il paziente. Ospedali chiusi, personale ridotto, concorsi bloccati per anni.


Il divario Nord-Sud si consolida: l’Emilia-Romagna sperimenta modelli di efficienza, la Calabria fatica a garantire i livelli essenziali di assistenza. Il principio costituzionale di uguaglianza nella salute comincia a incrinarsi. La salute, da diritto universale, diventa gradualmente una variabile di bilancio.


La stagione dei tagli e la retorica dell’efficienza

Dopo la crisi del 2008 arriva la stagione delle “spending review”.


Tagliare, razionalizzare, rendere efficiente. Parole che nei documenti di bilancio suonano virtuose, ma nei pronto soccorso si traducono in attese interminabili e personale esausto.


Tra il 2010 e il 2019 la sanità pubblica perde quasi 40 miliardi di euro. Il blocco del turnover svuota gli ospedali, mentre cresce il peso del privato accreditato. Nasce una sanità “a doppia corsia”: chi può paga e salta la fila, chi non può resta indietro. E così, l’articolo 32 che garantisce cure gratuite agli indigenti diventa, nella pratica, un obiettivo disatteso.

Si parla di digitalizzazione: fascicolo sanitario elettronico, ricetta online e telemedicina. Ma la tecnologia corre più veloce della burocrazia. Ogni Regione ha la sua piattaforma, i dati non dialogano, e il cittadino resta l’anello più debole di un sistema frammentato.


Covid-19: la sveglia (quasi) collettiva

Poi arriva il 2020. Il virus travolge un sistema già stremato. Manca tutto: personale, posti letto, dispositivi, coordinamento. La pandemia riporta la sanità al centro dell’agenda politica e mediatica come non accadeva da decenni. Tutti scoprono l’importanza della medicina territoriale, dei medici di base, della prevenzione.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) destina oltre 15 miliardi alla Missione 6 “Salute”. Nascono concetti come “Case della Comunità” e “Ospedali di Comunità”, si parla di telemedicina e assistenza domiciliare. Ma, a distanza di anni, molte strutture esistono solo sulla carta. I fondi rischiano di tornare a Bruxelles, e gli operatori sanitari continuano a mancare. La pandemia ha aperto una finestra di consapevolezza, ma la politica, passata l’emergenza, sembra averla chiusa. E con essa si richiude, ancora una volta, la possibilità di rendere concreto il principio costituzionale di tutela universale.


ree

Le politiche recenti: promesse e realtà

Il governo ha provato a invertire la rotta. Ha introdotto misure per assumere nuovo personale sanitario, ha avviato una riforma della medicina territoriale, e rilanciato la digitalizzazione del sistema. Si è tornati a parlare di salute mentale, dopo anni di abbandono, e di prevenzione, un settore da sempre sotto finanziato.


Ma la sanità resta schiacciata tra vincoli di bilancio e disillusione burocratica.


Le Regioni denunciano carenze di organico, i medici scappano all’estero, le liste d’attesa si allungano. E i cittadini, come sempre, si arrangiano: chi può paga il privato, chi non può rinuncia a curarsi. È qui che la contraddizione si fa evidente:


il diritto alla salute, da diritto fondamentale, si trasforma in privilegio condizionato dal reddito.


Un sistema sotto finanziato e senza direzione politica

Oggi la spesa sanitaria italiana si aggira intorno al 6,7% del PIL, ben al di sotto della media europea. Non basterà qualche miliardo in più per cambiare la traiettoria. Servono visione e coraggio politico.


Perché la crisi del SSN non è solo economica: è culturale.


È l’idea stessa di salute pubblica che è stata progressivamente svuotata. La sanità è diventata un comparto da bilanciare, non una politica da costruire.

Eppure, mai come oggi, la salute è una questione sociale e politica. Lo dimostrano le nuove povertà sanitarie, le disuguaglianze territoriali, le liste d’attesa che spingono verso il privato, la mancanza di prevenzione nelle scuole e nei luoghi di lavoro.

È il segno di un Paese che ha dimenticato il significato profondo dell’articolo 32: che la salute non è un lusso né una merce, ma il fondamento stesso dell’uguaglianza e della cittadinanza democratica.

Rimettere la Costituzione al centro della politica sanitaria non è un atto simbolico: è un’urgenza civile. Solo così il SSN potrà tornare a essere ciò che era stato promesso nel 1948 e immaginato nel 1978: una garanzia di libertà, dignità e giustizia per tutti.



 
 
 

Commenti


bottom of page