Almasri arrestato in Libia: complimenti al governo libico o nuove critiche per l’Italia?
- Giada Aquilini
- 8 nov
- Tempo di lettura: 8 min
Dall’emittente Lybia24, all’ora di pranzo italiana del 5 novembre, arriva la notizia ufficiale su X: Almasri è stato arrestato a Tripoli.
Il generale libico, accusato di tortura di detenuti nel carcere di Mitiga e dell’omicidio di uno dei prigionieri, era riuscito a sottrarsi - anche grazie alle ambiguità della politica italiana - al fermo emesso nel gennaio 2025. L’operazione è stata condotta congiuntamente dal nuovo governo libico e dalla Corte Penale Internazionale. Al momento si attende il processo.
L’arresto del generale riporta ora al centro della polemica la gestione italiana del caso e l’indagine del Tribunale dei ministri, interrotta dopo la mancata autorizzazione a procedere votata in Parlamento.
Cosa è successo a gennaio
Per comprendere la vicenda bisogna tornare al 19 gennaio 2025, quando Njeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, fu arrestato a Torino su mandato della Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella prigione di Mitiga. Le accuse coprivano un periodo che parte dal febbraio 2011: secondo l’inchiesta, almeno 34 detenuti sarebbero stati uccisi su suo ordine e 22 persone violentate dalle guardie, tra cui un bambino di cinque anni.
La mancata convalida dell’arresto – dovuta a un cavillo giuridico – portò alla sua immediata scarcerazione e al successivo rimpatrio a Tripoli su un volo Falcon 900 dell’Aeronautica Militare italiana. Il problema nacque dalla mancata trasmissione del mandato d’arresto al Ministero della Giustizia, passaggio previsto per legge. La scarcerazione, così come il rimpatrio, avvennero senza preavviso né consultazione con la Corte Penale Internazionale, che chiese poi chiarimenti al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. La risposta arrivò al Senato pochi giorni dopo: il rimpatrio sarebbe avvenuto “per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto”.
La Corte d’Appello di Roma aveva infatti dichiarato il non luogo a procedere, ritenendo l’arresto “irrituale” e quindi non convalidabile. Secondo Piantedosi, l’espulsione fu dunque “la soluzione più appropriata, anche per la durata del divieto di reingresso”.

Arresto in Libia
Il fermo attuale è una conseguenza dell’indebolimento delle forze Rada, di cui Almasri è esponente di spicco, finita nel mirino del primo ministro Daidaba. È quindi un segnale di cambio nei vertici del potere in Libia che hanno reso possibile la cattura dell’ex comandante. La milizia privata del generale ha controllato per anni i servizi di Tripoli, ma i rapporti si sono incrinati nelle ultime settimane, in seguito ad un cambio di strategia adottato dal premier per ripulire l’immagine del suo governo a livello internazionale. Inoltre Daidaba non poteva lasciare che il più discusso torturatore rimanesse impunito.
I media libici descrivono Almasri come sorridente al momento dell’arresto, mossa interpretata come atto di sfida o convinzione di riuscire a cavarsela anche questa volta, come lo scorso gennaio. Sembra verrà trasferito a Misurata per essere sottoposto a processo, ma questo è ancora da chiarire.
Le reazioni dei partiti politici
L’episodio di gennaio scatenò una bufera in Parlamento. Le critiche arrivarono tanto dall’opposizione quanto da parte della comunità internazionale.
Il Partito Democratico puntò il dito contro la premier Giorgia Meloni, accusandola di aver autorizzato l’uso di un aereo di Stato per il rimpatrio: “Questa decisione è stata presa a Palazzo Chigi. La presidente del Consiglio deve venire in Parlamento a spiegare cosa è avvenuto”. L’avvocato Li Gotti, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi, denunciò Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano per favoreggiamento personale e peculato. La denuncia, presentata il 23 gennaio, fu accompagnata da due pagine di ricostruzione dell’accaduto.
Il 28 gennaio, con un video pubblicato su Instagram, Meloni confermò di aver ricevuto un avviso di garanzia dal procuratore Francesco Lo Voi, insieme ai ministri Nordio, Piantedosi e al sottosegretario Mantovano.
Le reazioni politiche non tardarono: Conte la invitò a “togliersi il guscio da Calimero” e a rispondere pubblicamente; Renzi definì la scelta del rimpatrio “sbagliata politicamente ma non penalmente”, accusando però Meloni di voler “cavalcare l’avviso di garanzia per alimentare il suo vittimismo”; Calenda parlò di “gestione disastrosa” e “surreale”.
Dalla maggioranza arrivarono invece messaggi di sostegno: Salvini scrisse su X “lo stesso procuratore che mi accusò a Palermo ora ci riprova a Roma con il governo di centrodestra. Riforma della giustizia, subito!”.
I ministri Valditara, Crosetto e Giuli invocarono la separazione delle carriere e denunciarono “attacchi oltre il limite”. Tajani dichiarò: “L’Italia non è sotto scacco di nessuno: siamo un Paese sovrano e facciamo la nostra politica”.

Cosa prevede la legge
Meloni spiegò che la liberazione di Almasri “non fu una scelta del governo, ma una disposizione della magistratura”, e che, per ragioni di sicurezza, “non si utilizzano voli di linea per il rimpatrio di soggetti pericolosi”. La premier chiese inoltre chiarimenti alla Corte Penale Internazionale sulle tempistiche e sulle modalità del mandato di arresto, ricordando che Almasri era stato localizzato in almeno tre Paesi europei nei dodici giorni precedenti.
La legge costituzionale del 1989, sulle responsabilità penali dei membri del governo, stabilisce che il Procuratore della Repubblica abbia 15 giorni per trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri dal momento in cui riceve notizia di reato connesso alle funzioni ministeriali. Questo organo, previsto dall’articolo 96 della Costituzione, giudica i reati commessi dal Presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle proprie funzioni.
Nel caso Almasri, la Camera dei Deputati doveva autorizzare il procedimento penale per Meloni e Nordio, mentre per Piantedosi e Mantovano, non parlamentari, la decisione spettava alla magistratura ordinaria. La Giunta parlamentare può concedere o negare l’autorizzazione a procedere se ritiene che l’atto sia stato compiuto per la tutela di un interesse pubblico o costituzionalmente rilevante. In caso di giudizio, si segue il codice di procedura penale ordinario, con i successivi gradi di impugnazione.
Cosa accadeva nel carcere di Mitiga
Il carcere di Mitiga, a Tripoli, era considerato la più grande prigione della Libia occidentale. Molti detenuti erano rinchiusi per motivi politici o religiosi – cristiani, atei, oppositori – o anche solo per sospetti di immoralità o omosessualità. I giudici dell’Aia descrivono interrogatori brutali, torture con bastoni, armi da fuoco, elettrocuzione e isolamento in celle metalliche.
Secondo il rapporto della Corte, si contano 6 detenuti stuprati, 4 morti per colpi d’arma da fuoco, 12 per torture, 16 per mancanza di cure mediche e 2 deceduti per l’esposizione al freddo, costretti a dormire all’aperto. Almeno 36 persone furono ridotte in schiavitù, tra cui un bambino di nove anni. Almasri, presente nella maggior parte delle situazioni documentate, avrebbe impartito ordini su come picchiare i detenuti “senza lasciare segni visibili”, e punito chi tentava di contattare le famiglie dei prigionieri.
La Corte sostiene che non solo ne fosse a conoscenza, ma che favorisse attivamente le condizioni disumane di detenzione. Il 3 febbraio 2025, una delle vittime, Lam Magok Biel Ruei, denunciò Meloni, Nordio e Piantedosi per favoreggiamento, accusandoli di aver “sottratto il torturatore libico alla giustizia internazionale”. Attraverso il suo legale, l’avvocato Francesco Romeo, Ruei dichiarò di sentirsi vittima “due volte”: prima delle torture, poi dell’impunità concessa al suo carnefice. Chiese all’Italia di “tornare a essere uno Stato di diritto, dove la legge è uguale per tutti, senza eccezioni né sospensioni”.
La risposta delle istituzioni italiane
Il 5 febbraio, durante l’informativa dei ministri trasmessa in diretta tv, Carlo Nordio prese la parola alla Camera alle 12.15 e al Senato alle 15.30. Spiegò che la comunicazione del mandato, in lingua inglese, era arrivata solo dopo l’arresto, e che esistevano contraddizioni nelle date dei crimini: nel preambolo si parlava di febbraio 2011, ma nel corpo del mandato di marzo 2015, con Gheddafi già caduto. La CPI, per correggere il “pasticcio frettoloso”, modificò successivamente l’atto. Nordio definì “sciatto” l’operato della magistratura, accusandola di aver “giudicato senza leggere le carte” e di aver “messo in crisi una situazione già delicata”.
Nei giorni seguenti, Pd, M5S, Alleanza Verdi-Sinistra, Italia Viva e +Europa presentarono una mozione di sfiducia contro Nordio, chiedendo di rivedere le procedure di cooperazione con la giustizia internazionale. La mozione fu respinta a marzo con 215 voti contrari e 119 favorevoli.
Nordio commenta: “La situazione è stata esasperata nei toni. Mi si è accusato di favorire la mafia e la criminalità organizzata: più saranno violenti e impropri gli attacchi, più saremo determinati”.
E Almasri?
Nel luglio 2025, la Procura generale libica emise un ordine formale di comparizione nei confronti di Almasri, in esecuzione del mandato della Corte Penale Internazionale per tortura, stupro, omicidio, trattamenti inumani e detenzione arbitraria. Poche settimane dopo, sui social arabi cominciò a circolare un video che lo ritraeva mentre uccideva un cittadino libico per le strade di Tripoli. Nel filmato si vede un uomo con le sue fattezze aggredire un passante disarmato, gettarlo a terra e colpirlo con violenza. Secondo fonti della Rada – la milizia di Tripoli di cui Almasri era parte – l’episodio risalirebbe al 2021 o 2022. Il generale si sarebbe giustificato affermando di aver reagito a un uomo armato che aveva rifiutato di spostare l’auto, “senza tuttavia provocargli gravi lesioni”. Il 30 settembre 2025, Almasri fu rimosso dai suoi incarichi e sostituito dal generale Ajaj nella gestione delle operazioni di sicurezza giudiziaria.
Negata autorizzazione a procedere
Il 4 agosto, la premier Meloni ricevette il decreto di archiviazione relativo alla vicenda, in quanto non risultava “preventivamente informata” né partecipe della decisione di rimpatriare Almasri con un volo di Stato. L’archiviazione, tuttavia, non riguardò gli altri tre indagati – Nordio, Piantedosi e Mantovano – per i quali fu richiesta l’autorizzazione a procedere. Meloni rivendicò la compattezza del governo: “A differenza di qualche mio predecessore che ha preso le distanze da un suo ministro, rivendico che questo governo agisce in modo coeso sotto la mia guida. Io non sono Alice nel Paese delle Meraviglie: sono il capo del governo”.
Il 9 ottobre, la Camera dei Deputati respinse a scrutinio segreto l’autorizzazione a procedere per tutti e tre i ministri: 251 voti contrari per Nordio, 256 per Piantedosi, 252 per Mantovano. La premier era presente in Aula. Il PD votò a favore dell’autorizzazione, denunciando il rischio di creare un precedente pericoloso e accusando il governo di “cedere al ricatto di una milizia paramilitare libica che agisce peggio del governo Netanyahu a Gaza”.

Politica vs Magistratura
Dietro la vicenda Almasri si è consumato l’ennesimo scontro tra politica e magistratura, già acceso dal dibattito sulla riforma della separazione delle carriere. Il 15 ottobre, dopo il voto alla Camera, il ministro Carlo Nordio dichiarò: “Lo strazio che il Tribunale dei ministri ha fatto delle norme più elementari del diritto è tale da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati”.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, in difesa dei giudici, denunciò “attacchi oltre il limite” e avviò una procedura di tutela nei confronti del Tribunale dei ministri, parlando di “toghe ferite per lederne la credibilità”.
Nuovo scontro politico in Italia
L’arresto di Almasri a Tripoli riapre ora un fronte politico che sembrava chiuso. Per il governo libico, la cooperazione con la Corte Penale Internazionale rappresenta un atto di forza. Per l’Italia, invece, il caso resta una ferita aperta: quella di un presunto torturatore consegnato alla giustizia solo dopo essere stato lasciato partire dal nostro Paese.
Le opposizioni attaccano ora l’esecutivo, parlando di “clamorosa figuraccia internazionale”, con Giuseppe Conte che attacca: “che umiliazione per il governo Meloni. Ora diranno che la Procura generale in Libia è un nemico dell’esecutivo”.
Le dichiarazioni di Palazzo Chigi riaprono ora un nuovo scontro, definite ridicole dalla segretaria del Pd, Elly Schlein, aspettando che il Governo chieda scusa agli italiani. Si richiede anche che l’esecutivo si dimetta, in riferimento al comportamento di Nordio, Piantedosi e Mantovano, che sono venuti meno ai loro doveri, portati oggi a compimento dal governo libico.
Una storia che rischia di tornare a pesare sulla credibilità italiana nelle relazioni internazionali.
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