Anatomia di una TV di Stato
- Giulio Baglivi
- 24 ott
- Tempo di lettura: 7 min
Una definizione
Il giornalismo in Italia è un argomento quantomeno complicato da affrontare. Teoricamente, il giornalista è una figura che dedica la sua vita all’informazione, che ricava tramite un’attenta ricerca e studio delle fonti, a cui si dovrebbe limitare un’esposizione oggettiva di fatti dimostrati. Il giornalismo d’inchiesta è una branca particolarmente importante perché si concentra sul rivelare verità scomode, spesso volontariamente celate all’opinione pubblica, tramite la ricerca di prove, testimonianze o dati che possono richiedere competenze investigative. Queste figure, che in Italia spesso non godono di ottima fama, hanno visto nella loro storia recente moltissimi errori o critiche da parte di personaggi illustri. Parlando delle critiche, Umberto Eco scrive Numero Zero, un romanzo che denuncia la ricerca del sensazionalismo morboso nel mondo dell’informazione, la cosiddetta “macchina del fango”. Parlando invece degli errori, essi sono innumerevoli, soprattutto perché spesso si finisce per accontentare le aspettative del lettore. Si intende per esempio, tutti quei termini giuridicamente inesatti che spesso vengono utilizzati in articoli che parlano di condanne o processi. Spesso si legge “condannato” alla notizia di una persona arrestata qualche ora o giorno prima, ovviamente facendo intendere una colpevolezza già certificata, laddove ovviamente non ci sarebbe neanche stato il tempo materiale per il processo. Si deve far attenzione a non pensare che questo sia essere puntigliosi: la presunzione di innocenza è un pilastro saldo della Costituzione della stragrande maggioranza dei paesi democratici, e l’uso di terminologie più forti è solo un mezzo sensazionalistico che non ha nulla a che vedere con l’informazione, ma è più propagandistico che retorico.
Il caso dell’editto bulgaro e il caso Ranucci
Tra gli anni ’80 e ’90 del ’900 italiano, il giornalismo d’inchiesta era guidato da figure di alta caratura, tra cui: Corrado Stajano, che ha scritto opere importanti come Il Sovversivo e Africo; Giuseppe D’Avanzo, figura storica che ha intrapreso numerose inchieste sulla P2 e la mafia, oltre ad aver fatto conoscere le complicità italiane nel sequestro dell’imam egiziano Abu Omar da parte della CIA a Milano; e, infine, Enzo Biagi, che ha portato avanti numerose inchieste sulla corruzione politica, che probabilmente portarono al suo allontanamento dalla Rai dopo il famoso “Editto Bulgaro” di Berlusconi. L’episodio dell’Editto Bulgaro è un momento importante per capire anche il rapporto che in Italia vige tra governo e informazione. La storia è la seguente: nel 2002, in una conferenza stampa a Sofia, capitale bulgara, Silvio Berlusconi attaccò pubblicamente tre figure molto note nel panorama Rai: Michele Santoro, Daniele Luttazzi e ovviamente Enzo Biagi. Berlusconi disse: “L’uso che Biagi, Santoro e Luttazzi hanno fatto della televisione pubblica è un uso criminoso del mezzo pubblico”. A seguito di tale dichiarazione, tutte e tre le figure vennero allontanate dalla Rai e i loro programmi chiusi o non rinnovati. La storia non ha un lieto fine: Santoro riuscì, dopo diversi anni a La7, a tornare in Rai; Luttazzi fu rifiutato da più reti e prese una pausa di anni dalla televisione; mentre per Biagi non andò meglio, dato che non tornò più con il suo programma e nel 2007 morì a seguito di complicazioni dovute a un edema polmonare.

Altro caso simile è quello di Report, programma televisivo diretto da Sigfrido Ranucci, autore di numerosi servizi d’inchiesta non digeriti bene dalla politica: un servizio di inizio 2025 su Silvio Berlusconi fu etichettato dal centro-destra come “indirizzato ad un linciaggio mediatico”, il servizio sugli exstraprofitti delle banche e l’incapacità del governo a limitare la speculazione di queste, oppure la critica al contratto di servizio della rai, che secondo Report marginalizzerebbe il giornalismo d’inchiesta. Non sembra quindi un caso che recentemente il programma abbia subito una riduzione delle puntate, uscendone di fatto gravemente castrato. Ancora più pericolosa l’imposizione che gli è arrivata dall’alto di firmare o delegare la firma di documenti che certificherebbe “un allineamento alla normativa aziendale Rai”, cosa che potrebbe gravemente limitare le libertà editoriali del programma. Inoltre è importante citare l’esistenza di molti richiami disciplinari presi nei confronti di Ranucci reo, secondo l’azienda pubblica, di aver rilasciato libri e interviste senza il permesso della stessa Rai, cosa che secondo molti giornalisti nostrani e non, può essere interpretata come diretta pressione dell’azienda su Ranucci, cosa che la Rai ha tenuto direttamente a smentire. Infine possiamo citare le oltre 170 denunce per le inchieste di “Report” per la maggior parte arrivate da ambienti politici.

La qualità delle inchieste
Non ci deve quindi sorprendere la qualità della nostra informazione mainstream, dove anche grandi volti dell’inchiesta non sono tutelati dall’attacco del loro stesso governo. Questo può spiegare in gran parte lo stato del giornalismo nostrano, il cui messaggio è spesso sensazionalistico, scialbo e talvolta accomodante col governo. Questo porta a fenomeni grotteschi, per cui si parla per mesi del divorzio della leader di Fratelli d’Italia, e mai dei numerosi casi di rapporti tra mafia e vari partiti politici, o addirittura delle sempre curiose provenienze dei finanziamenti dei partiti. Facciamo qualche esempio: un’inchiesta europea ha parzialmente indagato eventuali finanziamenti russi verso vari partiti nazionali di paesi dell’Unione, anche se, per dovere di cronaca, ancora non ci sono prove che ve ne siano in Italia. Unica notizia certa è che la Lega, nel 2018, propose di alleggerire o abbattere le limitazioni vigenti in Italia sulle donazioni da stati esteri. Oppure, un ex deputato di Forza Italia, condannato per voto di scambio politico-mafioso, avrebbe accettato la promessa di procurare voti da parte di un mafioso in cambio di denaro e favori al clan: è stato condannato a 10 anni nel 2024. Queste sono solo alcune delle notizie che vengono affrontate velocemente, alla rinfusa e senza il rimbombo mediatico che ha avuto una vicenda come il divorzio di Giorgia Meloni o della presenza di Fedez alla convention di Forza Italia. Di nuovo, per dovere di cronaca, sono riportati solo esempi riferiti al governo attuale, per evidenziare la paura del giornalismo nostrano a porsi contro il potere istituito, da cui spesso questi giornalisti dipendono. Infatti, tutti sappiamo come la Rai sia la televisione dello Stato, ma pochi si soffermano sulle conseguenze che ciò comporta.
Pensate in totale autonomia: come definireste uno Stato che ha un ordine dei giornalisti giuridicamente indipendente dal governo, che però ha come principale valvola di sfogo la televisione, il medium più usato da quello stesso Stato per informarsi, che è in gran parte occupata o dalla televisione pubblica che ha evidenti influenze dal governo stesso, o da una televisione privata che fino a poco tempo fa era direttamente legata a un membro del governo? Lo definireste uno Stato di libera informazione? Oppure ammettereste le influenze propagandistiche governative?
La struttura della Rai: è vero che il governo può attuare delle pressioni?
Per rispondere meglio alla domanda, indaghiamo un’ultima questione: qual è la struttura della Rai? Se è vero che il governo può premere così forte sulla televisione, che addirittura una dichiarazione dalla Bulgaria possa portare al licenziamento di 3 giornalisti di punta. La Rai, come tutti sappiamo, è la televisione pubblica italiana; spesso dimentichiamo o diamo per scontato che essa sia un’azienda statale a tutti gli effetti, che gestisce canali TV e radio, finanziata in parte dal canone pagato dai cittadini e in parte dalla pubblicità. La Rai è una società per azioni in cui l’unico azionista è lo Stato; le figure cardine di tale società sono: l’amministratore delegato, che gestisce le scelte strategiche; il presidente, che ha un ruolo rappresentativo; e il Consiglio di amministrazione, cioè sette membri che approvano le decisioni principali.

Come vengono scelti i membri del Consiglio di amministrazione? Due vengono dalla Camera dei deputati, due dal Senato, uno dai dipendenti Rai, uno dal Ministero dell’Economia e l’ultimo dal Presidente del Consiglio dei ministri, che nomina anche l’amministratore delegato. Quindi, riassumendo: il governo sceglie direttamente sicuramente due membri del CDA, tra cui uno è anche nominato dal Presidente del Consiglio come amministratore delegato. Due perché uno viene scelto dal Ministro della Cultura, che a sua volta è stato selezionato dal Presidente del Consiglio; quindi, direttamente e indirettamente, sono già due figure certe su sette. Poi, essendo il governo maggioranza, avrà molto probabilmente anche altri quattro membri del CDA assicurati, siccome due vengono scelti da ogni Camera per maggioranza di voto; infine, solo uno è scelto direttamente dai dipendenti della Rai, mentre il presidente della Rai è scelto dal Ministero dell’Economia e sarà confermato solo dopo l’approvazione della commissione parlamentare di vigilanza. Ovviamente, ci sono delle precisazioni: avendo l’Italia un governo di coalizione, i quattro membri del CDA potrebbero non essere rigidamente legati alle prospettive governative, siccome al momento del voto potrebbero esserci fratture di opinione tra membri della coalizione di governo; anche se sarebbe molto raro pensare che una coalizione sacrifichi un vantaggio così enorme per spalleggiare l’opposizione nella scelta di un membro più affine proprio all’opposizione che al proprio partito e quindi coalizione. Di conseguenza, si può asserire con leggerezza che un numero da tre a sei membri siano facilmente influenzabili dal governo, mentre solo uno è sicuramente neutro, siccome eletto dai dipendenti. Ovviamente esistono delle limitazioni, che però risultano estremamente deboli se c’è un controllo di sei membri su sette del CDA. Infatti, queste limitazioni, che riguardano in modo più massiccio la censura, sono facilmente evitabili tramite semplici operazioni: limitare le voci critiche attraverso il mancato rinnovo di contratti o lo spostamento di programmi scomodi in orari meno trafficati, modifiche di budget che di fatto tolgono fondi alle produzioni, oppure riducendo il pluralismo in modo tecnico, ad esempio con la scelta degli invitati ai talk show o il tempo e lo spazio da dare a una voce.
La questione dell'elezione dei vertici Rai però non è passato in sordina a livello europeo: infatti l’Unione Europea, che l’8 agosto 2025 ha inaugurato l’entrata in vigore del regolamento “European Media Freedom Act” (EMFA) che, se rispettato, garantisce non solo libertà editoriali nei media tradizionali ma anche trasparenza nell’elezione dei vertici, l’italia è stata richiamata ufficialmente con una lettera di messa in mora (primo passo ufficiale di procedura di infrazione) proprio per un presunta influenza governativa sulla Rai e una non abbastanza trasparente procedura di elezione dei vertici Rai. Prima di invitarvi nuovamente alla riflessione, vi presento un’ultima situazione ipotetica: mettiamo il caso che in Italia un partito salga al governo da solo col 55% dei voti, con un’opposizione che non riesce a superare il 25-30%, lasciando il resto a partiti minori: questo singolo partito avrebbe anche una maggioranza solida in Parlamento, garantendosi al 100% sei membri del CDA su sette, tra cui sia l’AD che il presidente Rai, di fatto lasciando il controllo della rete TV pubblica direttamente al governo di maggioranza; ciò apporta una sottile differenza sebbene sia cruciale alla situazione nostrana attuale, siccome un governo guidato da un partito unico non esprimerebbe neanche più quelle differenze intrinseche in un governo di coalizione, rendono di fatto totalmente unico il pensiero.
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