Capire il conflitto fra India e Pakistan
- Jacopo Marinacci
- 12 mag
- Tempo di lettura: 9 min

22 aprile 2025, Valle di Baisaran, vicino Pahalgam nelle regione del Jammu e Kashmir in India, 4 terroristi islamici del Fronte di Resistenza, proxy di Lashkar-e Taiba, gruppo terroristico jihadista fondamentalista islamico vicino ad Islamabad, letteralmente “esercito del bene”, apre il fuoco contro una folla di turisti e provoca la morte di 26 persone, lasciando altre 17 in fin di vita. Purtroppo questo è solo l’ultimo degli eventi tragici che negli ultimi 80 anni ha colpito la regione del Kashmir, che sin dal 1947, anno in cui India e Pakistan diventarono due entità indipendenti, viene contesa tra le due nazioni. Il gruppo, secondo l’intelligence indiana è finanziato dal governo di Islamabad, che non è nuovo alla pratica di sovvenzionare entità che tentano di minare la sovranità dell’India nella regione del Kashmir. Negli ultimi giorni l’India ha espulso 25 diplomatici e revocato tutti i visti ai cittadini pakistani, il Pakistan ha risposto allo stesso modo. Purtroppo il dramma non finisce qui, dato che l’India ha sospeso il Trattato sull’Indo, che dal 1960 regolava la gestione delle acque del fiume, assegnando il controllo di circa il 70% del corso d’acqua al Pakistan e il restante 30% all’India. La sospensione di questo trattato è stato definito dal Pakistan come un “atto di guerra”. Sono stati sospesi tutti i rapporti commerciali con l’India, è stato interdetto il traffico aereo indiano sul territorio pakistano, inoltre è stato messo in allerta l’esercito nazionale, ed è stato annunciato un test missilistico. Da circa una settimana ormai, truppe indiane e pakistane si confrontano sul confine colpendo le posizioni avversarie con “small arms fire” e le tensioni non accennano a diminuire. Il 29 aprile il Ministro federale dell’informazione del Pakistan, Attaullah Tarar, ha dichiarato che il governo di Islamabad ha informazioni attendibili secondo cui l’India intende intraprendere un’azione militare contro il Pakistan nelle prossime 24-36 ore.
Pahalgam (cittadina protagonista dell’attacco terroristico) si trova nella regione del Jammu e Kashmir, ove la sovranità indiana è apertamente contestata da Islamabad e non solo, infatti l'obiettivo principale di Lashkar-e Taiba (gruppo terroristico che ha sovvenzionato l’attacco) è proprio quello di annettere Jammu e Kashmir e Ladakh al Pakistan. È impossibile inoltre non accennare al fatto che nella regione di Jammu e Kashmir agiscono decine di altri gruppi a trazione islamista (Hizbul Mujahideen, Paff, Trf, Hum, Huji e Al-Badr sono solo alcuni), con strette connessioni a Isis e Al-Qaeda. Dal 2020 si sono registrati più di 4000 incidenti armati, ma nonostante questo il Pakistan afferma di sostenere soltanto i partiti locali che chiedono pacificamente l’indipendenza dall’India: Dove tracciamo la linea fra supporto politico e complicità?.

Cerchiamo di comprendere le radici di queste ostilità, che risalgono direttamente all’epoca coloniale, quando India e Pakistan erano entrambi parte della perla dell’impero coloniale britannico, il Raj. È importante tenere conto del fatto che nel subcontinente indiano avevano convissuto le comunità indù, musulmana e sikh, e che le tensioni fra questi gruppi erano già affiorate durante il dominio coloniale, caratterizzato da una categorizzazione della popolazione in base alla religione che, secondo molti analisti, è la causa principale della successiva polarizzazione di questi gruppi. Già dai primi anni ‘20 del ventesimo secolo la contrapposizione fra indù e musulmani subì una drastica accelerazione: i due gruppi iniziavano ad identificarsi con movimenti politici per l’indipendenza con visioni molto distanti su una futura India indipendente. Negli anni ‘40, durante la seconda guerra mondiale, le due comunità, guidate rispettivamente dal Partito del Congresso (a maggioranza Indù) e dalla Lega Musulmana, si interfacciarono con i primi episodi di violenza, e poco a poco le comunità miste scomparirono promuovendo la creazione di entità separate e contrapposte.
Dopo un lungo processo di proteste e di disobbedienza civile il Partito del Congresso indiano, guidato dal Mahatma Gandhi, chiedeva la creazione di un grande stato federale che comprendesse tutta l’India britannica, mentre il leader della Lega Musulmana, Muhammad Ali Jinnah, chiedeva che ai musulmani indiani (il 30 per cento della popolazione) venisse concessa la creazione di un loro stato indipendente, così da non rischiare l’oppressione della maggioranza indù.
Il viceré dell’India, Lord Mountbatten, prese atto della decisione del 1946 del governo inglese di abbandonare la colonia indiana, e accettò la soluzione del doppio stato, su basi religiose e confessionali. Quella che ricordiamo come la “Partizione” fra India e Pakistan divenne effettiva alla mezzanotte tra il 14 e 15 agosto 1947.
Immediatamente apparve chiaro che questa metodologia di suddivisione non fu efficace al 100%, milioni di persone si ritrovarono dalla parte “sbagliata” dei nuovi confini, e iniziò una delle più grandi migrazioni di massa della storia. Milioni di musulmani dall’India si diressero verso il Pakistan dell’Ovest e dell’Est (oggi Bangladesh), e altrettanti indù e sikh fuggirono dalle loro case nel nuovo Pakistan, per trovare sicurezza nella nuova India. Molte di queste migrazioni vennero categorizzate come “coatte”, poiché i gruppi religiosi maggioritari cacciarono quelli minoritari, scatenando episodi di violenza gravissimi e un esodo caotico e non preparato, né da una parte, né dall’altra. Per darvi un’idea dell’inefficacia dei confini post-coloniali: Karachi, designata capitale (fino al 1958) del Pakistan, nel 1941 era abitata da indù quasi per il 50%, e Nuova Delhi era per un terzo musulmana. Dieci anni dopo la quasi totalità degli indù era partita dal Pakistan e 200.000 musulmani avevano lasciato la capitale indiana.
A un anno dalla decisione dell’Impero britannico, che all’epoca non riuscì, né volle davvero, contenere le violenze, il processo migratorio legato alla “Partizione” era ormai completato. Le stime ufficiali parlano di almeno un milione di vittime, ma ricerche demografiche successive suggeriscono che il numero di morti e dispersi potrebbe aver superato i tre milioni. I vasti campi profughi sorti in India e Pakistan continuarono a ospitare centinaia di migliaia di sfollati fino almeno al 1951.
Se pensate che i problemi si arrestino a quelli scaturiti dalla “Partizione”, vi sbagliate di grosso:
1947, 1965, 1971 e 1999, queste sono le date delle quattro guerre indo-pakistane.
Partiamo dal primo conflitto, quello del 1947: Scoppiò subito dopo la “Partizione”, e il casus belli fu la disputa territoriale sul Jammu e Kashmir, che per fortuna, grazie alla mediazione ONU, si concluse con la creazione della famosa “Linea di Controllo (LoC)”, dove ad oggi si registrano continui scambi di fuoco tra i due rispettivi eserciti.
La seconda guerra indo-pakistana del 1965, riguarda ancora la disputa per il Kashmir: che partita con gravi disordini nella regione, diventò rapidamente un conflitto convenzionale nella regione, che per fortuna si concluse dopo 17 giorni con il Trattato di Tashkent, mediato dall’URSS. Purtroppo questa mediazione fu utile solo a metà, poiché pose fine al conflitto convenzionale, ma non alla discussione sullo status territoriale del Kashmir. Il terzo conflitto, quello del 1971, è legato invece all’indipendenza del Bangladesh, che fino a quell’anno era riconosciuto come Pakistan Orientale: l’India intervenne militarmente per supportare i secessionisti bengalesi, contribuendo alla nascita del Bangladesh come nazione.
La Guerra di Kargil, è l’ultima delle quattro, e scoppiò nell’estate del 1999, ancora, nella regione del Kashmir, quando militanti pakistani e soldati travestiti da ribelli si infiltrarono oltre la ”LoC”. Il conflitto si concluse con una vittoria indiana, ma riaccese le tensioni nucleari tra i due paesi, pochi mesi dopo i rispettivi test atomici.

Il Kashmir:
Terra di confine fra titani e casa dell’Himalaya, è il fulcro delle tensioni tra India e Pakistan dal ‘47.
La regione, geograficamente è suddivisa fra tre nazioni, le due che conosciamo e la Cina.
Il Kashmir cinese corrisponde alle regioni orientali dell’Aksai Chin e il tratto del Trans-Karakorum (valle del K2). Il Kashmir indiano è invece suddiviso le regioni di Ladakh e del Jammu e Kashmir, entrambe dipendenze con autonomia limitata, quindi non veri e propri stati federali dell’India. Il Kashmir pakistano è formato dalle regioni dell’Azad Kashmir e del Gilgit-Baltistan. La Cina non ha pretese sulla regione, mentre sia India che Pakistan la reclamano nella sua interezza.
Facciamo un ultimo passo indietro, 1846, la Compagnia Britannica delle Indie Orientali conquista l’intera regione del Kashmir anche grazie all’aiuto di alcuni “locals”, tra cui Gulab Singh, un generale sikh che aveva come roccaforte la città di Jammu, e che favorì l’ascesa britannica nella regione. Egli venne ricompensato con la carica di Maharaja del Jammu e Kashmir, ossia divenne capo di uno stato principesco semi-autonomo fedele alla Corona Britannica. Al momento della “Partizione” nel ‘47, al Principe Hari Singh (uno dei successori di Gulab Singh) venne chiesto: India, o Pakistan?
La risposta fu rapida, e il principe optò per l’India. Peccato soltanto che il 70% della popolazione del Jammu e Kashmir fosse musulmana e quindi secondo la logica religiosa-confessionale seguita fino a quel momento nella “Partizione” la regione sarebbe dovuta andare al Pakistan. Islamabad reagì immediatamente inviando truppe nella regione, e Hari Singh non perse tempo: chiese aiuto all’India dando così iniziò la prima guerra indo-pakistana.
I problemi non scompaiono, anzi, si protraggono, perché tuttora, ad oggi, il 70% della popolazione del Jammu e Kashmir è musulmana e anche nel Ladakh la comunità islamica corrisponde circa al 50% della popolazione. Ciò comporta un problema per l’India: quello della legittimità, e allo stesso tempo un’occasione per il Pakistan, che può fare pressione sulla questione religiosa, sostenendo politicamente e non solo tutte le fazioni che sostengono la secessione dall’India e l’annessione al Pakistan. Dal 2019, il governo Modi, per tentare di ovviare a questo “problemino” ha declassato lo stato del Jammu e Kashmir a “territorio dell’unione”, rendendo così più semplice al governo centrale la gestione del territorio, eliminando gli intermediari locali. La paura dell’India è quella di vedere un Jammu e Kashmir più autonomo, che aprirebbe sicuramente le porte all’ingresso delle truppe di Islamabad nella regione.

È molto facile lasciarsi andare al pensiero secondo cui il Pakistan, data la storia e i dati forniti, possa essere direttamente coinvolto in questo attentato e responsabile per la rinnovata tensione fra le due potenze nucleari, ma bisogna astenersi da giudizi frettolosi. La situazione interna al Pakistan, versa in condizioni disastrose, il paese affonda in una crisi economica senza precedenti, a cui si aggiungono carestie idriche, corruzione sistemica e conflitti etnici, viene quindi da chiedersi: il vile attentato, potrebbe essere invece utilizzato dall’India come pretesto per affondare ancora di più il Pakistan? Basti pensare che la sospensione del Trattato sull’Indo signifca ridurre drasticamente l’afflusso idrico in tutto il Pakistan, minando ancora di più la stabilità del paese, indebolendo l’economia e alimentando le pressioni sul governo di Islamabad. Si può dire che questo attentato in una regione contesa, a maggioranza musulmana, ma comunque importantissimo luogo di pellegrinaggio per gli induisti, capiti “a fagiolo” per la retorica politica nazionalista-indù (hindutva) di Modi, che ha voluto mostrare il pugno duro, anche a causa dell’erosione dei consensi alle ultime elezioni per lui e il suo partito, il BJP.
Ma se siete convinti che la questione dell’attentato si limiti ai problemi indo-pakistani, ecco qui, che ancora una volta vi illudete: non bisogna dimenticarsi del Dragone sull’Himalaya, la Cina, che da sempre è in agguato contro l’India, e che pur non essendo direttamente interessata al Kashmir indiano, ha rivendicazioni su altre regioni dell’India, tra cui l’Himachal Pradesh, l’Uttarakhand, il Sikkim e L’Arunachal Pradesh. Non stiamo parlando di “agguato” in termini militari, anche perché il Dragone è il primo partner commerciale dell’India ed entrambi sono nei BRICS, bensì in termini di “il nemico del mio nemico è mio amico”, la Cina è un alleato strategico del Pakistan, e grazie a questa alleanza essa punta ad espandere il proprio progetto della “nuova via della seta” (road & belt initiative) anche nel Kashmir pakistano, limitando così eventuali mire espansionistiche dell’India.
La risposta con il pugno di ferro dell’India arriva quindi in un’ottica più ampia di quella che limita la questione al Kashmir. Di mezzo troviamo la stabilità interna indiana e pakistana, e soprattutto il messaggio che Nuova Delhi vuole far arrivare a Pechino: L’India non si piega, e le mire sul Kashmir neanche. Attenzione però, perché gli scontri nella notte del 6 maggio 2025, vanno ben oltre le scaramucce di cui abbiamo parlato finora: nelle ore notturne, l’esercito Indiano ha condotto l’operazione “Sindoor”, come ritorsione per l’attentato subito, colpendo a sua detta obiettivi terroristici in territorio pakistano senza toccare infrastrutture del governo o dell’esercito. Questo evento ha ricevuto una risposta tutt’altro che moderata, il Pakistan ha infatti attaccato a sua volta aeroporti e obiettivi strategici lungo la LoC, e per buona parte della notte c’è stato scambio di fuoco di artiglieria nel Kashmir. Inoltre il governo pakistano ha affermato più volte di aver abbattuto dai 3 ai 5 jet indiani, ponendo la questione sul piano del conflitto armato diretto, che nell’ultima settimana si è intensificato molto, con continui attacchi di droni e missili da una parte e dall’altra.
A cercare di spegnere le fiamme del conflitto è intervenuta una mediazione d’urgenza degli Stati Uniti, con Donald Trump in prima linea nel rivendicare il merito di una tregua che avrebbe dovuto riportare stabilità sul confine indo-pakistano. Il cessate il fuoco è stato annunciato il 10 maggio 2025 come un successo diplomatico, ma è durato solo poche ore. Nella notte tra il 10 e l’11 maggio, secondo quanto denunciato da fonti ufficiali indiane, il Pakistan avrebbe violato l’accordo con un attacco di artiglieria nella zona di Uri, nel Kashmir. Islamabad ha smentito, accusando Nuova Delhi di aver provocato lo scontro e giustificando le proprie azioni come difensive. Nonostante questa prima rottura, le notti successive sono trascorse senza nuovi incidenti rilevanti, segno che, almeno per ora, la tregua tiene.
Alla luce degli eventi storici e delle tensioni ancora aperte tra India e Pakistan, c’è un aspetto geopolitico che merita attenzione: l’India è già membro dei BRICS, insieme alla Cina, mentre il Pakistan ha presentato la sua candidatura nel novembre 2023. Anche se non è ancora parte del gruppo, la sola prospettiva del suo ingresso solleva interrogativi su possibili tensioni interne all’organizzazione. La gestione di un simile scenario potrebbe rappresentare il primo vero banco di prova per i BRICS, chiamati a dimostrare se il tanto evocato multipolarismo sia qualcosa di più di una formula retorica. Di fronte a un’eventuale escalation tra Islamabad e Nuova Delhi, potenze come Cina, Russia e Brasile avranno l’occasione, o forse la necessità, di dimostrare se il gruppo può davvero agire come mediatore globale, oppure se rischia di restare ostaggio dei suoi stessi contrasti.
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