Il potere nascosto delle agenzie di rating: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch come attori geopolitici
- Mario Mariano
- 7 ago
- Tempo di lettura: 8 min
Ci sono entità che non hanno un esercito, non approvano leggi, non governano Paesi. Eppure, il loro potere è tale da poter influenzare la vita di milioni di persone e le sorti di interi governi. Le agenzie di rating Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch in primis sono esattamente questo: arbitri silenziosi ma potentissimi dell’economia globale.
A prima vista, il loro ruolo sembra innocuo: assegnare un voto che rappresenta l’affidabilità finanziaria di Stati, aziende o strumenti finanziari. Questo voto, espresso in una scala che va dalla AAA (massima affidabilità) fino al temuto junk bond (titolo spazzatura), indica la probabilità che l’emittente ripaghi il proprio debito. In teoria, si tratta di un servizio pensato per orientare gli investitori.
Ma la realtà è molto più complessa. Dietro quelle lettere e quei numeri si nasconde un potere immenso: un downgrade può far schizzare in alto i tassi di interesse che un Paese deve pagare sul proprio debito pubblico, scatenare una fuga di capitali e persino provocare crisi politiche. Al contrario, un upgrade può ridare ossigeno a economie in difficoltà e restituire fiducia ai mercati.

Tre colossi e un potere concentrato
Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch non sono semplici attori del mercato: sono il mercato. Insieme controllano oltre il 95% del settore delle valutazioni, una posizione di forza che conferisce loro un’influenza enorme.
Seguire le loro decisioni non è facoltativo: se un Paese perde l’investment grade ovvero il livello minimo di affidabilità, molti fondi di investimento sono obbligati, per statuto, a vendere immediatamente i suoi titoli di Stato. Non è una scelta: è un vincolo regolamentare.
Il risultato è che un singolo report negativo può generare un effetto domino devastante: gli investitori vendono, i prezzi dei titoli crollano, lo spread esplode, i tassi d’interesse salgono e il bilancio dello Stato va fuori controllo.
E non è una possibilità teorica: la storia recente è piena di casi in cui i giudizi delle agenzie di rating hanno cambiato il corso della politica e dell’economia.
Quando un downgrade fa cadere i governi
Italia 2011: in piena crisi dello spread, Standard & Poor’s abbassa il rating del nostro Paese. L’effetto è immediato: i mercati perdono fiducia, lo spread BTP-Bund schizza oltre quota 500 e il costo per rifinanziare il debito pubblico diventa insostenibile. È una delle scintille che porteranno alla caduta del governo Berlusconi e all’arrivo del governo tecnico guidato dall’economista Mario Monti.
Grecia 2010-2012: ogni downgrade di Atene scatena una fuga di capitali e rende più difficile negoziare con Bruxelles e il Fondo Monetario Internazionale. Le agenzie non si limitano a fotografare la realtà: la peggiorano, alimentando un circolo vizioso.
Stati Uniti 2011: persino la superpotenza americana subisce un declassamento da parte di Standard & Poor’s, scatenando una tempesta finanziaria globale.
Questi esempi dimostrano una verità scomoda: le agenzie di rating non sono semplici spettatori. Sono attori politici ed economici, capaci di influenzare le scelte dei governi e la percezione degli investitori.

Sono davvero arbitri neutrali?
Le agenzie di rating si presentano come entità indipendenti, mosse solo da analisi rigorose e metodologie tecniche. Ma la realtà è più sfumata.
Innanzitutto, sono aziende private con obiettivi di profitto. E il loro modello di business crea conflitti di interesse difficili da ignorare: spesso sono gli stessi emittenti (cioè gli Stati o le aziende) a pagare per ottenere un giudizio. Un po’ come se uno studente pagasse il professore per essere interrogato.
In secondo luogo, le tempistiche dei downgrade sono spesso sospette: arrivano nei momenti più delicati dal punto di vista politico, amplificando le crisi anziché prevenirle.
Infine, la loro affidabilità è stata messa in discussione da errori clamorosi: nel 2008 le stesse agenzie che oggi giudicano i bilanci degli Stati avevano assegnato la tripla A a titoli tossici legati ai mutui subprime, contribuendo a far esplodere la più grande crisi finanziaria dal 1929.
Il potere dietro le quinte: rapporti con governi e autorità
Le agenzie di rating non agiscono in un vuoto istituzionale. Hanno contatti costanti con governi, banche centrali e autorità di vigilanza.
In Italia, ad esempio, le agenzie tengono riunioni periodiche con la Consob, l’autorità che vigila sui mercati finanziari. In queste occasioni devono illustrare le metodologie utilizzate, spiegare le motivazioni dei giudizi e rispondere a domande sugli effetti che le loro decisioni possono avere.
A livello europeo, l’ESMA esercita una supervisione diretta sulle attività delle agenzie, mentre la Banca Centrale Europea e la Commissione UE monitorano costantemente i loro giudizi sui debiti sovrani. Ma, nonostante questi controlli, le agenzie conservano una sostanziale autonomia decisionale.
Ed è proprio questa autonomia, unita al potere di condizionare i mercati, a sollevare la domanda più importante: chi controlla i controllori?
Il rating come arma geopolitica
Oltre agli effetti economici, le valutazioni delle agenzie possono diventare strumenti di pressione politica. Un downgrade rende più difficile per un governo reperire fondi sui mercati e ne aumenta la vulnerabilità. Questo può spingere i governi a rivedere le proprie politiche fiscali, sociali o persino le proprie alleanze geopolitiche.
Non è un mistero che le tre agenzie principali siano radicate negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Questo offre a Washington e a Londra un vantaggio strutturale: il debito americano, pur essendo enorme, è considerato il più sicuro al mondo e il dollaro resta la valuta di riferimento globale.
AI o mercato autoregolato? Le alternative imperfette
Quando si riflette sul potere delle agenzie di rating, è inevitabile chiedersi se esistano alternative reali. Due ipotesi emergono con più forza: affidare le valutazioni all’Intelligenza Artificiale oppure tornare a un mercato che si autoregola, lasciando che la famosa “mano invisibile” teorizzata da Adam Smith stabilisca chi merita fiducia e chi no.
Entrambe le strade, tuttavia, mostrano evidenti limiti.
L’Intelligenza Artificiale: un’arma a doppio taglio
L’AI viene spesso considerata come un possibile strumento capace di ridurre i bias umani e di fornire giudizi più rapidi e accurati. La sua capacità di elaborare milioni di dati in tempo reale rappresenta un’opportunità per avere valutazioni aggiornate costantemente.
Eppure, il problema non è solo tecnico. Gli algoritmi sono sviluppati da grandi aziende private che, come tutte le aziende, sono parte del mercato e quindi soggette alle stesse dinamiche che oggi si critica. Affidare a loro un compito così centrale rischierebbe di spostare il potere da tre agenzie a poche multinazionali tecnologiche, aumentando ulteriormente la concentrazione.
Inoltre, qualsiasi algoritmo si basa su dati storici e, inevitabilmente, assorbe le distorsioni e i bias del sistema da cui attinge. Non esiste garanzia che un modello di AI non finisca per replicare gli stessi errori delle agenzie di rating tradizionali. C’è poi un ulteriore nodo: chi si assumerebbe la responsabilità politica delle conseguenze di un downgrade deciso da un sistema informatico?

Il mercato autoregolato: un’illusione di equilibrio
L’altra ipotesi è che siano direttamente gli investitori a stabilire il livello di rischio di uno Stato o di un’azienda, senza intermediari. In teoria, il mercato potrebbe diventare un grande giudice collettivo, capace di correggere i propri eccessi attraverso le dinamiche naturali di domanda e offerta.
Ma la realtà dei mercati è molto diversa dalle teorie economiche. I prezzi non riflettono solo dati oggettivi: sono influenzati da paura, euforia e speculazione. Le reazioni possono essere irrazionali e amplificate, soprattutto in momenti di tensione. Senza un punto di riferimento comune, il rischio è quello di creare un sistema ancora più instabile, dominato dagli umori e dalla forza dei grandi capitali.
Inoltre, il problema dell’asimmetria informativa resterebbe intatto. I piccoli investitori non dispongono degli strumenti e delle informazioni delle grandi banche o dei fondi hedge. Un mercato completamente libero da riferimenti ufficiali finirebbe per penalizzare proprio chi è più esposto e meno tutelato.

Una terza via necessaria
Un sistema realmente equilibrato non può basarsi solo sull’AI o solo sul mercato. Serve un modello ibrido, che unisca tecnologia, trasparenza pubblica e regole più solide:
L’AI può essere uno strumento di supporto, ma deve essere aperta e supervisionata da autorità indipendenti, non un potere oscuro concentrato in poche aziende tecnologiche;
Le autorità di vigilanza come Consob in Italia, l’ESMA in Europa e organismi simili nel resto del mondo devono avere un ruolo attivo nel validare le valutazioni e correggere eventuali derive destabilizzanti;
I mercati devono poter esprimere i loro giudizi, ma senza che un singolo downgrade inneschi automaticamente vendite forzate che aggravano le crisi.
Questo approccio avrebbe il vantaggio di ridurre la dipendenza dai giudizi delle agenzie di rating, creando più punti di riferimento e rendendo l’intero sistema meno vulnerabile a concentrazioni di potere.
Il vero nodo: chi decide il destino dei Paesi?
Al centro di tutto resta una domanda: chi deve avere l’ultima parola sulla credibilità finanziaria di uno Stato?
Spostare questo potere sull’AI significa affidarsi a un algoritmo creato da aziende che, a loro volta, sono soggette alle stesse dinamiche di mercato che si vogliono superare. Lasciarlo completamente ai mercati espone al rischio di caos, volatilità e reazioni emotive che possono travolgere anche economie solide. Mantenere lo status quo, con tre agenzie private che detengono il monopolio del giudizio, vuol dire accettare di essere ostaggi di un sistema opaco e spesso pro-ciclico.
Un modello multilivello, che combini strumenti tecnologici, vigilanza pubblica e mercati più trasparenti, è l’unica strada percorribile per restituire equilibrio e responsabilità politica a un meccanismo che oggi decide, di fatto, il futuro dei governi e delle generazioni che dovranno ripagare il debito.
Quali soluzioni possibili?
Per cambiare davvero le regole del gioco non bastano critiche generiche. Servono interventi concreti e strutturali, capaci di riequilibrare un sistema che oggi concentra troppo potere nelle mani di tre attori privati. Una delle prime opzioni da considerare riguarda la creazione di agenzie pubbliche o sovranazionali: l’Europa, ad esempio, potrebbe dotarsi di un organismo indipendente e finanziato direttamente dai bilanci comunitari, capace di fornire valutazioni credibili e in grado di controbilanciare il monopolio delle big3.
Allo stesso tempo, è necessario rompere il legame diretto tra chi paga e chi viene valutato. Finché saranno gli emittenti stessi a finanziare le proprie valutazioni, il conflitto di interessi resterà intatto. Un fondo indipendente, pubblico o misto, potrebbe assumersi il costo dei rating, restituendo maggiore credibilità all’intero processo.
Un’altra priorità è il rafforzamento della supervisione: autorità come Consob in Italia, l’ESMA in Europa o i regolatori americani devono avere strumenti più incisivi per vigilare sulle metodologie utilizzate e sull’impatto che le valutazioni hanno sui mercati. Questo significherebbe anche garantire criteri chiari e trasparenti, accessibili agli operatori e ai cittadini, in modo che i giudizi non restino percepiti come decisioni calate dall’alto.
Infine, è cruciale ridurre il peso eccessivo che i rating hanno nei regolamenti dei mercati finanziari. Oggi un singolo downgrade può far scattare meccanismi automatici che costringono banche e fondi a vendere, aggravando le crisi. Creare più punti di riferimento, diversificare le fonti di analisi (includendo indicatori ESG, modelli di AI aperti e altri parametri macroeconomici indipendenti) renderebbe l’intero sistema meno vulnerabile agli effetti domino.
Un cambiamento di questo tipo non è semplice, ma è indispensabile. Solo così si può costruire un quadro più stabile, meno concentrato e capace di restituire equilibrio e responsabilità politica a un meccanismo che oggi decide il destino delle economie e delle generazioni future.
Chi comanda davvero?
Finché le agenzie di rating resteranno il punto di riferimento principale per banche e investitori, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch continueranno a esercitare un potere enorme.
Ma i Paesi non possono più limitarsi a subire i loro giudizi. Servono regole più stringenti, maggiore trasparenza e alternative credibili.
Perché il potere delle agenzie di rating non si vede, non fa rumore ma può far cadere governi, condizionare politiche economiche e segnare il futuro di intere generazioni.
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