top of page

L’ALL-IN DI NETANYAHU

  • Alessandro Morelli
  • 16 giu
  • Tempo di lettura: 3 min
ree

L’attacco del 12 giugno ha colto di sorpresa un po’ tutti, in primis il nostro ministro degli esteri Antonio Tajani che, la mattina dello stesso giorno, aveva dichiarato “Non ci sono segnali di attacco imminente da parte di Israele”.


Se si entra invece più affondo nella situazione, sono molti i motivi che hanno spinto Israele a fare all-in e attaccare il suo acerrimo nemico proprio in questo momento. I motivi si dividono in strategici e politici, asseriscono quindi alla politica estera e a quella interna dello Stato Ebraico.


Con l’operazione Rising Lion”, sul cui significato torneremo in seguito, Israele non vuole semplicemente sabotare il programma nucleare iraniano, ma ridisegnare la carta del Medio Oriente, l’obiettivo, ormai dichiarato, è quello di decapitare la leadership iraniana, come già accaduto ad Hamas ed Hezbollah, arrivare a un vero e proprio cambio di regime: Nel suo ultimo discorso, infatti, Netanyahu ha esortato il popolo iraniano a ribellarsi a un “regime malvagio e oppressivo”, richiamando l’amicizia tra i due popoli nata sotto Ciro “Il Grande”, re persiano che liberò gli ebrei dalla schiavitù di Babilionia, e citando, in conclusione, lo slogan delle proteste anti governative in Iran “Zan, Zendegi, Azadi“ - Donna, Vita, Libertà”.


Lo stesso nome dell’operazione sembrerebbe un auspicio alla caduta del regime islamico e la rinascita del “Leone”, simbolo della dinastia Pahlavi e protagonista della bandiera iraniana fino al 1978, anno in cui lo Scià fu rovesciato e si instaurò la Repubblica Islamica. Le parole sembrerebbero essere confermate dai fatti, l’attacco israeliano ad ora ha interessato strutture militari, difese antiaeree e siti nucleari come quelli di Natanz e Fordow.


Proprio la “paura” dell’arma nucleare, o meglio la volontà di essere l’unico soggetto della regione a detenere questo privilegio, è stato il movente dell’attacco, Israele infatti afferma che la capacità iraniana di fornirsi dell’arma atomica era imminente. Ma Israele non era l’unico soggetto preoccupato della proliferazione nucleare, gli Stati Uniti avevano intavolato dei difficili colloqui con Teheran sull’argomento, che Tel Aviv ha sempre criticato temendo la doppiezza del regime iraniano.


Lo Stato Ebraico infatti era preoccupato dai risultati che questa trattativa poteva produrre e, soprattutto, dalle concessioni che gli Stati Uniti potevano fare alla Repubblica Islamica.


L’attacco chirurgico del 12 giugno, tra le altre cose, sembra infatti un tentativo di deragliare le trattative e continuare a fiaccare i persiani, già profondamente indeboliti dalle conseguenze del 7 ottobre; debolezza intuita e sfruttata da Tel Aviv.


Nonostante questo, Trump ha cercato di volgere la situazione a proprio favore invocando immediatamente un accordo tra Stati Uniti e Iran, che ricalca quello che fece Obama e che fu proprio Trump a ritirare nel 2018. Il ruolo di Washington nell’attacco è ancora poco chiaro, è stato Trump a dare il disco verde all’operazione o è stato solamente informato? Ma soprattutto, Washington ha ancora una reale presa su Israele? 


A queste domande potrà rispondere, però, solo il tempo. La possibilità che gli Stati Uniti e Israele fossero d’accordo sull’attacco sembrerebbe però smentita dal licenziamento, avvenuto qualche settimana fa, di Mike Waltz: Nonostante questo fosse stato motivato dal “Chat-gate”, un’inchiesta del Washington Post ha rivelato che l’allora Segretario per la Sicurezza Nazionale, nonostante la scelta della via diplomatica con Teheran da parte dell’amministrazione, stesse “esplorando” modi per colpire le infrastrutture nucleari iraniane con Netanyahu.


Riassumendo quindi, gli obiettivi strategici di questa operazione militare sono: rovesciare la leadership iraniana, impedire che l’Iran si doti dell’arma nucleare, deragliare le trattative tra USA e Repubblica Islamica. Passiamo ora alle motivazioni prettamente interne: Netanyahu è un uomo politicamente morto che tenta di spostare le lancette un po’ più avanti.


Troppi gli scandali che hanno travolto il suo operato, l’ultimo ha visto il governo israeliano sovvenzionare una milizia islamica nella Striscia per combattere Hamas; troppe le crisi che il suo governo, schiavo del consenso dei partiti più oltranzisti, ha dovuto affrontare, troppo il dissenso dilagante tra la popolazione.


Aprire il fronte con l’Iran unisce tutte le forze politiche e seda i conflitti in seno al suo governo, alla Knesset (il parlamento israeliano) e al paese, sempre più spaccato.

La guerra all’Iran mette in modalità “Non disturbare” anche le atrocità nella Striscia di Gaza che avevano portato anche i vassalli europei a muovere delle timide critiche al governo Netanyahu e che adesso invocano il “diritto di Israele a difendersi”.


In conclusione, ci troviamo davanti a una possibile svolta delle dinamiche mediorientali, la posta in palio non è mai stata così alta.

Commenti


bottom of page