La guerra silenziosa dei CDS: il derivato che decide il nostro spread
- Mario Mariano
- 21 ott
- Tempo di lettura: 4 min
Un segnale che non si vede, ma pesa su tutti noi
Ci sono guerre che non fanno rumore, che non hanno confini né fronti visibili, ma che possono decidere il destino di intere Nazioni. Una di queste guerre si combatte ogni giorno nei mercati finanziari, ed è fatta di contratti che quasi nessuno conosce ma che tutti paghiamo: i Credit Default Swap, CDS per chi mastica il gergo della finanza.
Non li trovi nelle prime pagine dei giornali, non se ne discute nei bar o nei talk-show politici, eppure sono lì, come un sensore sensibile e nervoso che misura la fiducia dei mercati verso l’Italia. Se questo sensore si accende, se il suo prezzo sale, anche lo spread BTP-Bund si allarga e per il nostro Stato diventa più caro finanziarsi. In altre parole: più interessi da pagare, più tasse domani, meno soldi per istruzione, sanità e investimenti.

Comprendiamo meglio cosa sono questi CDS
Un CDS è una specie di assicurazione contro il fallimento. Se un investitore ha in portafoglio titoli di Stato italiani, può comprare un CDS per proteggersi dall’eventualità che l’Italia non ripaghi il debito. Pagherà un premio annuale, come si fa con una polizza auto, e riceverà un indennizzo in caso di default. La differenza è che, a differenza di una polizza, chiunque può comprare CDS, anche senza possedere titoli italiani. Si può quindi scommettere sul rischio insolvenza italiano senza avere nemmeno un titolo di stato in tasca. È qui che lo strumento da prudente copertura si trasforma in arma speculativa.
Il risultato è paradossale: più investitori comprano protezione, più il prezzo del CDS sale. E se il CDS sale, i mercati leggono quel segnale come un aumento del rischio. Da lì allo spread più alto il passo è breve. È il meccanismo della profezia che si auto-avvera.
2011: quando i CDS fecero cadere un governo
L’Italia ha già visto cosa succede quando questa spirale diventa ingestibile. Nel 2011 i CDS sull’Italia esplosero a quasi 600 punti base, segnalando che il mercato prezzava un rischio di default enorme. In parallelo, lo spread BTP-Bund superò i 500 punti, i rendimenti sui decennali salirono oltre il 7% e i conti pubblici divennero insostenibili.
Il resto è storia: crollo di fiducia, caduta del governo Berlusconi, arrivo del governo tecnico Monti. I CDS non furono spettatori neutrali: furono detonatori di una crisi politica.
E non era solo l’Italia. La Grecia, in quegli stessi anni, bruciava sotto lo stesso fuoco: CDS alle stelle, spread fuori controllo, costretta a chiedere aiuti internazionali e a firmare piani di austerità che hanno lasciato cicatrici ancora visibili.
Oggi: calma apparente
Settembre 2025. Lo spread BTP-Bund è intorno agli 85–90 punti base, i CDS italiani a 5 anni viaggiano sui 35–45 punti. Numeri relativamente bassi, soprattutto se confrontati con il 2011. I mercati non stanno prezzando un rischio insolvenza italiano imminente.
Eppure, il sensore resta acceso. Basta un annuncio sbagliato, una tensione con Bruxelles sui conti pubblici, una crisi politica improvvisa e i CDS possono reagire ancor prima che lo spread si muova. È come un allarme che scatta al primo odore di fumo. Non significa che ci sia già l’incendio, ma indica che la paura può diffondersi in fretta.
Un mercato opaco
A rendere tutto più complesso è la natura stessa del mercato dei CDS. Non sono quotati in Borsa come le azioni: si scambiano in mercati “over the counter” (OTC), cioè direttamente tra grandi banche e fondi. Questo significa che non sempre c’è trasparenza su chi compra, chi vende e in che volumi. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), a metà 2024 il mercato globale dei derivati di credito valeva circa 9.200 miliardi di dollari di nozionale, in crescita rispetto agli anni precedenti. Una cifra immensa, che ci ricorda quanto grande sia il campo di battaglia su cui si giocano queste scommesse.
E come spesso accade, i protagonisti sono sempre gli stessi: le grandi banche d’investimento di New York e Londra, che dominano il flusso e quindi anche il tono di questa guerra silenziosa.

Tra regole e realtà
Dopo la crisi del 2011 l’Europa ha provato a difendersi. Dal 2012 è vietato comprare naked CDS sui titoli sovrani europei: cioè non puoi assicurarti sul rischio Italia se non hai in portafoglio titoli italiani o correlati. Una norma pensata per ridurre la speculazione pura. Eppure, la finanza è creativa. Esistono prodotti ibridi, triangolazioni con fondi esteri, arbitraggi tra mercati regolamentati e OTC. Risultato: il mercato dei CDS non è sparito. Ha solo cambiato forma, continuando a inviare segnali che influenzano lo spread.
CDS come arma geopolitica
C’è poi un aspetto meno discusso ma altrettanto decisivo: i CDS non sono solo numeri tecnici, sono anche strumenti geopolitici. Se i CDS di un Paese salgono, quel Paese diventa più vulnerabile. Deve pagare più interessi, è meno credibile sui mercati, ha meno margini di manovra politica. Un governo sotto pressione finanziaria è un governo più debole nei negoziati, sia con Bruxelles che con attori internazionali.

La vera domanda
Alla fine, resta una domanda: chi decide il prezzo del rischio Italia?
I nostri fondamentali economici, come crescita e deficit? O i desk dei trader a Londra e New York che scambiano CDS? La verità è che i due piani si intrecciano. Sde i fondamentali sono fragili, basta poco perché la speculazione li amplifichi. Se i fondamentali sono solidi, anche la speculazione trova meno spazio.
È qui che la politica deve assumersi le sue responsabilità. Perché non tutto dipende dai mercati. Molto dipende da quanto il Paese riesce a presentarsi credibile, stabile, coerente nelle sue scelte.
Non un mostro, ma un segnale
Demonizzare i CDS serve a poco. Così come illudersi che siano irrilevanti. Sono un segnale, potente e imperfetto, con cui la finanza globale misura il rischio sovrano.
L’Italia deve imparare a leggerlo senza farsi travolgere. Perché i CDS non spariranno: continueranno a lampeggiare come un semaforo giallo, pronti a diventare rosso se perdiamo di vista i nostri conti pubblici.
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