Sarajevo 1992-1996: l'ennesima vittima della banalità del male
- Lorenzo Piccheri
- 21 nov
- Tempo di lettura: 7 min
“In time of war, we are all losers” – Velibor Bozovic
5 aprile del 1992. Due colpi di cecchino uccidono due studentesse bosniache che manifestano per la pace. È l’inizio dell’assedio di Sarajevo, un accerchiamento militare operato dalle forze serbo-bosniache con l’appoggio dell’Armata Popolare Jugoslava verso la capitale bosniaca durato fino al febbraio 1996.

L’assedio fu la risposta del governo centrale di Belgrado alle aspirazioni indipendentiste della Bosnia-Erzegovina dalla Jugoslavia. Quest’ultima fu uno stato federativo che riuniva sei diversi stati e due province autonome, caratterizzato da una pluralità etnica e religiosa. Il mosaico di popoli aveva convissuto pacificamente per decenni sotto l’autorità carismatica di Josip Broz Tito. Ma, alla sua morte, nessun successore fu capace di mantenere l’unità della nazione.
Sull’onda delle dichiarazioni d’indipendenza della Slovenia e della Croazia, il presidente bosniaco Izetbegovic propose al parlamento un memorandum per una Bosnia sovrana, democratica e rispettosa delle diverse etnie. La Bosnia, infatti, è tutt’oggi la nazione più multietnica d’Europa: nel 1992, la popolazione era composta per il 44% da bosgnacchi musulmani, per il 31% da serbo-ortodossi e per il 17% da croato-cattolici.
Il rifiuto da parte serba del memorandum portò all’esplosione della tensione: fu proclamata la Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia Erzegovina, conosciuta come Repubblica Srpska, che aveva come obiettivo il congiungimento alla “Grande Serbia”. Così, il 5 aprile, ebbe inizio lo scontro a fuoco.

Oggi, grazie alle memorie di quelle persone che hanno vissuto sulla propria pelle la paura e l’incertezza dell’assedio, ci è possibile immaginare com’era la città, la mattina del 6 aprile 1992.
L’unica via d’accesso alla città, stretta tra le montagne su cui nel 1984 si svolsero i giochi olimpici invernali, è il gigantesco viale a sei corsie chiamato Zmaja od Bosne. Percorrere questa strada permette di tornare indietro nel tempo, assaporando la storia della Bosnia, metro dopo metro.
Si inizia dagli alti palazzi dell’epoca comunista, quando la necessità di dare alloggio a tutta la popolazione predominava sulla ricerca della bellezza architettonica. Qui viveva la maggior parte della popolazione, che godeva di un incantevole affaccio sulle montagne circostanti.
Proseguendo, Zmaja od Bosne trasporta nella Sarajevo asburgica, a tratti simile a Vienna per la sua architettura. È l’odore del caffè turco a trasportare poi verso il cuore ottomano della città. Qui, le strette vie del centro alternano ora una chiesa cattolica, ora una moschea e ancora una sinagoga, a ricordare l’anima multietnica della città.

Tuttavia, il visitatore che si trovi a calpestare la principale arteria cittadina, noterà ben presto che le diverse architetture presentano tuttavia un fattore comune: ogni palazzo, via e strada mostra ancora i fori di proiettile e le vive ferite della guerra, dando la misura del terrore quotidiano che chi si trovava a Sarajevo in quegli anni viveva.
Quella strada che oggi permette di viaggiare nel tempo, divenne al tempo tristemente nota con il soprannome, datogli dagli stessi abitanti, di Sniper Alley. Chiunque vi passava diventava bersaglio dei cecchini serbi, appostati sulle montagne circostanti.
Per percorrere la Sniper Alley vi erano solo due opzioni: sfrecciare con l’automobile, avendo cura di abbassare prima i finestrini, affinché un eventuale proiettile non li frantumasse ferendo il guidatore con le schegge di vetro, oppure correre, a perdifiato, riparandosi dietro i carri delle Nazioni Unite che facevano la spola da un angolo all’altro delle strade più esposte.
Questo lento movimento di carri cingolati, che percorrono avanti e dietro in larghezza la stessa strada per difendere inermi civili, rei di recarsi al lavoro, o a scuola, o all’obitorio a piangere i propri morti, rappresenta il fallimento dell’idea di un sistema internazionale basato sulla cooperazione e la diplomazia; rappresenta l’impotenza che le Nazioni Unite hanno avuto di fronte alle angherie serbe, passivi di fronte alla crudeltà serba e internazionale.

Oggi Sarajevo è una città vibrante, piena di vita e che sembra volersi lasciare alle spalle gli anni bui della guerra, e rinascere come capitale della multietnicità e della convivenza pacifica. Tuttavia, le sue strade e le sue case, le finestre rotte e i fori nel calcestruzzo bruciano come una ferita profonda, che fa fatica a rimarginarsi. Attraversare oggi Sniper Alley, tornata ad essere Zmaja od Bosne, restituisce l’impressione di sentire ancora le urla di disperazione, di chi su quella strada ha perso un parente, un amico, uno sconosciuto concittadino che aveva come unica colpa l’essere nato di un’etnia piuttosto che di un’altra.
Per 4 anni, dunque, ogni uomo, anziano o bambino di Sarajevo visse nell’incertezza, nella possibilità di uscire dalla propria casa ed essere colpito da un proiettile di cecchino, dalla scheggia di una bomba o dall’esplosione di una granata, non facendo più ritorno.
La città venne così isolata: le linee idriche ed elettriche, in una città in cui le temperature sotto lo zero sono estremamente comuni in inverno, furono interrotte. Gli abitanti erano costretti a vivere al buio, senza riscaldamenti, e a fare file interminabili alle uniche due fontane pubbliche della città per accaparrarsi una tanica d’acqua potabile. Tra queste storie di paura, pericolo e stenti, Velibor Bozovic ci racconta l'incredibile resistenza della popolazione: “Tutti cercavamo di vivere una vita normale in circostanze anormali; ad un certo punto, dici 'Questa ora è la mia vita'”.
La straordinaria resilienza bosniaca vedeva infatti gli abitanti tentare di vivere, non permettendo alla guerra di frapporsi tra loro e la loro vita: le persone si truccavano, si vestivano bene e si recavano a lavoro. La sera i ragazzi uscivano, andavano a ballare o a sentire la propria band preferita.
Nel 1993 si arrivò addirittura ad indire il concorso per la Miss Besieged Sarajevo, quando una schiera di ragazze tra i 15 e i 20 anni sfilò sulla passerella del Centro culturale bosniaco. Il titolo di Miss Sarajevo Assediata viene vinto da Inela Nogic, che salì sul palco esibendo uno striscione che recitava “Don’t let them kill us”, oggi conservato nel museo nazionale della città.

Abbiamo avuto l’opportunità di farci raccontare com’era vivere nella Sarajevo assediata da Velibor Bozovic, artista e fotografo che ha militato nelle forze bosniache di resistenza durante gli anni dell’assedio. Prova nostalgia degli anni ‘80 jugoslavi: afferma infatti che il regime comunista era terminato, rendendo la Jugoslavia simile ad altri paesi europei “Il mondo non era un segreto per noi. Anche io ascoltavo il punk, come tutti gli altri. Probabilmente, da noi arrivò con giusto uno o due mesi di ritardo, ma lo adoravo”. Racconta delle serate passate con i suoi amici, a giocare a biliardo al lume di candela in quanto la luce non c’era, ad ascoltare la sua band bosniaca preferita che restituiva una serata in cui ci si poteva dimenticare della guerra, dei proiettili e delle bombe.
Bozovic fu inoltre parte della resistenza militare bosniaca: l’Armija Bosne i Hercegovine fu la principale falange militare che si oppose ai soprusi serbi. Tuttavia, a causa di un embargo internazionale imposto su tutta l’ex Jugoslavia, fu estremamente difficile reperire armi e munizioni. Ciò portò ad una condizione di estrema disparità con l’armata serba, che aveva ereditato gli arsenali dell’Armata Popolare Jugoslava.
Mentre i militari bosniaci lottavano per la sopravvivenza e per la difesa del loro popolo, i generali serbi ordinavano il logoramento psicologico dei cittadini. In alcuni video dell’epoca si può sentire Slobodan Milosevic ordinare il bombardamento a intervalli regolari della città con colpi di mortaio, affinché gli abitanti venissero privati del sonno e spinti alla resa. Ma la resistenza bosniaca fu più forte, ed è lo stesso Bozovic a raccontarlo: “Eravamo ragazzini, volevamo farne parte anche noi”. Così, nel 1993 iniziarono gli scavi per la costruzione del cosiddetto “Tunnel della speranza”, che permetteva di raggiungere l’aeroporto di Sarajevo direttamente dal centro città, rendendo così possibile l'approvvigionamento di munizioni ma anche di cibo e viveri. Il tunnel è oggi testimonianza viva della guerra, dell’orrore che gli abitanti di Sarajevo hanno subito e della forza che hanno avuto nel rialzarsi.

Un bambino che si dondola sull’altalena. Una ragazza che esce con le amiche. Un uomo che torna dal lavoro. Scene comuni, a cui chiunque volga l’occhio dalla sua finestra verso la strada ha assistito. Tuttavia, a Sarajevo queste scene vennero intervallate dal tuono dei cecchini, che scalzavano giù il bambino dall’altalena, facevano stramazzare a terra l’uomo che tornava dal lavoro, cadere esamine la ragazza con le sue amiche. La responsabilità, l’onta incancellabile giace nelle coscienze della comunità internazionale, dei governi ma anche dei singoli cittadini, e di fronte ad un qualsiasi bosniaco, sia egli di Sarajevo o di Tuzla, di Mostar o di Srebrenica, qualunque essere umano dovrebbe abbassare la testa, scusarsi e piangere le proprie colpe.
Oggi, a scusarci, buttarci in ginocchio e implorare perdono dobbiamo essere noi italiani. La procura di Milano ha da poco aperto un fascicolo sui cosiddetti Sarajevo Safari: secondo inchieste recenti, la banalità del male si sarebbe manifestata nella capitale bosniaca, quando ricchi magnati europei e non solo avrebbero pagato delle quote alle forze serbe per recarsi nelle loro postazioni, poste al di fuori della sfera di controllo internazionale, rendendosi diretti responsabili della caduta del bimbo e del ragazzo, del proiettile nella testa dell’anziana o nella gamba della ragazza.
Degli europei, tra cui anche italiani, avrebbero quindi pagato per avere la possibilità di imbracciare un fucile da cecchino e martoriare una popolazione stremata da anni di guerra, a meno di 50 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale dove già avevamo sfoggiato la nostra intestina crudeltà.

Bozovic racconta che la fine dell’assedio rimane tutt’oggi il giorno più bello della sua vita. Poté finalmente togliersi l’uniforme, e come prima cosa andò a teatro a sentire una band slovena cantare. L’assedio si concluse solo con l’intervento della NATO, che condusse raid aerei contro le posizioni serbo-bosniache indebolendo le forze serbe. Con gli accordi di Dayton venne poi formalizzata la fine dell’assedio, stabilendo la divisione amministrativa odierna della Bosnia.
La comunità internazionale permise la morte di 11.541 persone a Sarajevo, nel misero tentativo di mantenere lo status quo degli equilibri internazionali raggiunti durante la guerra fredda. 101 mila bosniaci, 101 mila persone, caddero vittime di un gioco politico.

Sarajevo 1992-1996
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