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Se il parlamento non parla?

  • Lorenzo Piccheri
  • 20 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Se il parlamento non parla?

“Il fantasma del referendum”, questa la risposta che ha dato Riccardo Magi, segretario di +Europa, quando gli è stato chiesto da cosa si fosse travestito in aula.

Con questo atto Magi ha voluto denunciare la professione di astensionismo del governo e la poca copertura sui quesiti referendari nei programmi RAI: infatti tutti i leader dei partiti di maggioranza ed esponenti del governo non hanno invitato i loro elettori a votare “NO” (tutti i quesiti del referendum sono stati proposti da partiti di opposizione) ma a disertare le urne.

Da Tajani a La Russa, passando per Salvini, tutta la maggioranza ha invitato ad astenersi. Il perché di questo risiede nella natura del referendum abrogativo: per essere valido deve votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto.


Astenersi equivale a un NO.

Non è assolutamente il primo governo a sostenere l'astensione al referendum, ma il nostro sistema non può più permettersi ciò e i dati sul crescente astensionismo devono essere un monito.

Il governo guidato da Meloni però non sembra credere appieno nel dibattito democratico, sia esso parlamentare o popolare e molto riluttante a ricevere critiche:


Venerdì 11 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha apposto la sua firma sul decreto-legge n. 48, denominato “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica”, segnando così la sua entrata in vigore. All’interno del cosiddetto decreto sicurezza, una serie di misure atte a inasprire le pene di alcuni reati, come quelle contro la vendita di cannabis light per scopi ricreativi, e a crearne di nuovi, come quello di “rivolta in carcere”.


Tante le misure contestate, tra il decadimento dell’obbligo di rinvio della pena per le donne in stato di gravidanza o l’obbligo imposto a extracomunitari di presentare un documento in corso di validità per acquistare una scheda telefonica, ma a generare più incertezza sono le modalità di approvazione del decreto.



Se il parlamento non parla?

Il Decreto Legge è, infatti, un atto con forza di legge previsto dall’ordinamento italiano che permette di approvare provvisoriamente in casi straordinari di necessità ed urgenza. Con l’adozione di questa tipologia di decreto, il governo si “arroga” il potere legislativo, altrimenti detenuto unicamente dal Parlamento, per far fronte ad un'emergenza, concedendo alle Camere 60 giorni per convertirlo in legge ordinaria. 60 giorni sono, però, un tempo estremamente breve, durante il quale si rende difficile la proposta di emendamenti o abrogazioni prima della votazione finale.


Durante la pandemia da Covid-19, il Decreto Legge era largamente utilizzato per emanare le disposizioni per il contenimento del virus: proprio il governo Draghi, che era sostenuto da una larghissima ma eterogenea maggioranza (erano presenti tutti i partiti ad esclusione di Fratelli d’Italia), era l’ex detentore del “record” di decreti utilizzati. Da poco, però, il governo Meloni ha strappato questa medaglia dal collo dell’ex presidente della BCE. Sono infatti 68 i decreti legge emanati dal governo Meloni dal giorno del suo insediamento, con una media di 3,34 al mese.


Il continuo ricorso a questo ed altri istituti dell’ordinamento, infatti, dimostra come il governo utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione (e anche di più) per scavalcare i processi di discussione, e eventualmente obiezione, degli atti legislativi. E’ infatti inusuale il percorso di vita del DL Sicurezza, nato come DDL, Disegno di legge, (seguendo quindi una normale procedura legislativa) sul quale era stato interpellato il Parlamento che lo aveva aspramente criticato e bollato come repressivo.


La conversione in Decreto-Legge serve quindi a rendere più veloce l’approvazione, togliendo al Parlamento la possibilità di modificarlo in maniera sostanziale. Se l’anacronia del decreto in questione, utilizzato per campagne ideologiche tutt’altro che urgenti, non fosse già abbastanza, è da segnalare come la dottrina sconsigli l’utilizzo di tale atto in materia penale: mentre per le leggi è previsto un periodo di 15 giorni prima dell’entrata in vigore, la cosiddetta “vacatio legis” che permette ai cittadini di venirne a conoscenza, i decreti legge entrano in vigore con effetto immediato. L’assenza di vacatio permetterebbe di invocare una sentenza della Corte Costituzionale del 1988, che dichiara come l’imputato di uno dei reati previsti dal decreto possa considerarsi colpevole solo ove la conoscenza della norma penale fosse possibile.


A questo punto, appare evidente come il carattere urgente del decreto decada, in quanto per un certo periodo di tempo una persona che si renda colpevole di uno dei reati previsti dal decreto potrebbe appoggiarsi all’ignoranza di tale legge. Questo dimostra come l’unica motivazione dietro l’utilizzo del Decreto Legge sia quella di scavalcare le consultazioni parlamentari.


Sebbene sia stato spiegato come il DL per diventare legge debba essere convertito dal Parlamento entro un termine di 60 giorni, per cui si potrebbe pensare che il giudizio del Parlamento sia solo rimandato, il governo Meloni ha adottato uno strumento costituzionale per limitare i poteri delle camere anche in materia di conversione: la questione di fiducia. 


Sono 58 le questioni di fiducia poste dal governo Meloni dal suo insediamento. 


La questione di fiducia, secondo l’ordinamento, permette al Governo di richiamare l’attenzione del Parlamento su una legge che ritiene fondamentale per la propria azione politica: dall’approvazione o meno di tale legge dipende la permanenza in carica del Governo stesso, quindi, la fiducia del Parlamento in lui. Nel caso in cui tale fiducia non venisse approvata, il Presidente del Consiglio è tenuto a restituire il mandato al Capo dello Stato. E’ infatti un istituto connesso al rapporto fiduciario fondamentale che lega il Parlamento al Governo che impedisce modifiche sostanziali al disegno di legge presentato.


Il governo Meloni sale sul gradino più alto del podio anche per rapporto tra voti di fiducia e leggi approvate. 


Se il parlamento non parla?

Queste pratiche portano alla marginalizzazione delle camere, all’impossibilità per le opposizioni di far valere la voce di quegli italiani che non hanno espresso la preferenza per l’attuale esecutivo (e vale la pena ribadire esecutivo) in carica, andando contro i principi democratici sui quali si basa la nostra Costituzione e la nostra Nazione.


Si sta assistendo dunque ad una riduzione programmatica dei poteri del Parlamento, riduzione in linea col progetto di riforma costituzionale iniziato dalla Meloni per rendere l’Italia un sistema basato sul cosiddetto “premierato”, ovvero l’elezione diretta del presidente del Consiglio.


Attualmente, a ricevere i voti sono i singoli partiti, organizzati in coalizioni, le quali una volta raggiunta la maggioranza scelgono in autonomia la propria squadra di governo, formata dai ministri, i segretari, sottosegretari e il PdC. Una volta formata la squadra di governo, questa si presenta in Parlamento dove deve ottenere la fiducia. 

Non sono ancora chiare le effettive modalità di elezione del Premier, in quanto il ddl Casellati (in cui è presente la proposta di premierato) rimanda ad una successiva legge ancora da redigere. Ad ogni modo, però, il premier rimarrebbe in carica per tutti e 5 gli anni della legislatura e per un massimo di due mandati, in pieno stile statunitense. 


Tale riforma andrebbe inoltre a ridurre i poteri del Presidente della Repubblica: Ad oggi, infatti, è il PdR ad incaricare, previa consultazioni, il Presidente del Consiglio individuato, con l’obiettivo di dare alla nazione un governo stabile e forte. Con la riforma del premierato, invece, l’incarico di Mattarella verrebbe ridotto ad un mero atto notarile di conferma dell’espressione delle urne. 


In aggiunta, la riforma prevede un premio di maggioranza cosiddetto “anti-ribaltone”, per evitare cioè che la coalizione di maggioranza possa essere rovesciata nel corso della legislatura. Questo, insieme alla possibilità (in caso di dimissioni) di eleggere solo un altro premier proveniente comunque dalla stessa maggioranza, sarebbero delle gravi erosioni del rapporto fiduciario tra Parlamento e governo.


In conclusione, a preoccupare gli osservatori, non è soltanto il contenuto del DL Sicurezza, ma l’esautorazione delle prerogative del Parlamento, ormai relegato a semplice timbratore di decreti. Questo è in linea non solo con la l’impronta del governo, ma con la direzione della politica italiana dove i parlamentari inseriti nelle liste elettorali vengono scelti dalle dirigenze dei partiti, e quindi necessariamente allineati al leader, e non scelti dai cittadini; questa sottigliezza spesso poco citata fa sì che deputati e senatori non debbano riferire ai propri elettori…ma al segretario del partito.





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