Vecchie e nuove prospettive in democrazia. Erano meglio i politici di ieri o quelli di oggi?
- Gianluca Mele
- 16 minuti fa
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“Non ci sono più i politici di una volta”, tante volte abbiamo sentito questo cliché da parte dei nostri nonni o da qualsiasi altro nostro parente, aforisma ridondante per noi giovani ogni qualvolta intavoliamo discorsi politici. Da umile appassionato, mi sono interrogato e, riflettendo sulle varie vicissitudini che gravitano attorno al mondo della politica, mi sono chiesto se realmente sussiste un divario incolmabile tra le figure primo-repubblicane e quelle attuali. Certamente ogni periodo storico è caratterizzato da luci e ombre, sancire in maniera aprioristica cosa sia meglio o cosa sia peggio, suffragando un’epoca piuttosto che un’altra, ridurrebbe la materia ad una mera questione di tifoseria, spogliando l’argomento del suo fascino. Nonostante la tematica sia di estrema complessità è possibile tracciare delle linee generali, cercando di individuare le più importanti differenze.

Analizzando lo “ieri” emerge con evidenza il totale mutamento del modus operandi dei nostri rappresentanti, passando dalla dialettica sino a giungere alla riverenza nei confronti degli avversari. Uno stravolgimento comportamentale ha investito la classe dirigente dalla costituente ad oggi. Tracciando uno spartiacque, durante la Prima Repubblica – denominata anche la Repubblica dei partiti - la politica nell’espressione dei partiti permeava in tutto il paese in varie forme: tramite i circoli territoriali, giornali di partito, programmi di governo, i militanti locali, ma soprattutto tramite la diffusione dei principali ideali, astrattamente necessari quale elemento di caratterizzazione della propria identità politica. Per fare un esempio, era impensabile per una figura di primo piano della DC non conoscere il pensiero di Sturzo, parallelamente per un comunista non si potevano non conoscere le opere di Marx. Il concorso di questi fattori determinava un radicamento dei partiti nel territorio, consentendo anche a livello locale la forma mentis di veri e propri dirigenti di partito – istruiti presso le scuole di partito interne alle sezioni - diventando tali solo dopo un appropriato “cursus honorum”; tale era il rigore adoperato nella struttura organizzativa (tra le tante scuole, la più celebre per rigore di metodo fu la “scuola delle Frattocchie”, interna al Partito Comunista Italiano).

L’abbandono di questa struttura organizzativa ha comportato da un lato un impoverimento ideologico culturale dei partiti, venendo meno il laboratorio teso all’analisi e al dibattito interno, dall’altro un indebolimento della partecipazione popolare, con un tasso di astensione che ha toccato il 46% alle ultime politiche del 2022; nel 1992 le “elezioni terremoto” - le ultime della Prima Repubblica, travolta dagli imminenti fatti di Tangentopoli- ebbero un’astensione del 13%, quadro cambiato in peggio visto l’evidente incremento dell’astensionismo. L’involgarimento generale del dibattito e l’avvento dei social hanno amplificato tale povertà contenutistica. La brevità dei tweet e la “followerizzazione” degli elettori fa sì che i partiti diventino macchine di accaparramento del consenso, rendendo flebile il rapporto tra rappresentante ed elettore, causando una volubilità del voto, verificatasi nelle ultime elezioni, con spostamenti di consenso anche del 20% da un partito all’altro (vedi FDI passato dal 4,3 % nel 2018, al 26% del 2022). Panorama diverso rispetto a quando gli italiani votavano per appartenenza ideologica e non per fiducia verso i leader, determinando un consolidamento elettorale rispettivamente alle diverse fazioni politiche. In merito, è interessante riscoprire un aneddoto del segretario del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi, il quale esponeva la bandiera con il simbolo del garofano fuori dalla sede del partito ogni qualvolta riuscissero ad ottenere un avanzamento dello 0.5% sul piano del consenso; dati interessanti, ma diametralmente opposti rispetto all’attuale carattere mutevole del voto. In tal senso possiamo spezzare una lancia a favore della vecchia struttura partitica, cedevole oggi di fronte all’individualismo, nel quale tutti gli altri membri del partito svolgono un ruolo di secondo grado.

Oggi disgiungere un partito dal proprio leader è pressoché impossibile, al netto di campagne elettorali condotte con il nome dell’esponente di punta all’interno del simbolo. Tale fenomeno era inimmaginabile in passato, poiché i partiti avevano più figure di primo piano – i cavalli di razza- come Montanelli era solito definire i politici democristiani più importanti; anche se, durante la fase primo-repubblicana l’accentramento del potere nei partiti ha provocato una lottizzazione del potere, degenerato nella istituzionalizzazione del clientelismo quale strumento di radicamento del consenso, fenomeno denominato “partitocrazia”. Bisogna, dunque, essere sempre cauti nel valutare migliore un’epoca rispetto ad un’altra. Inoltre, un aspetto di evidente divergenza è dettato dall’assenza del pensiero politico quale criterio di orientamento per una nuova visione dello Stato, essendosi ridotto tutto ad una questione di alleanze, per ottenere le percentuali soddisfacenti per governare. In passato, il sapere rappresentava l’antecedente necessario del fare, interiorizzare gli ideali quale elemento di personalità politica per poi poter espletare una funzione rappresentativa, la militanza era, dunque, inderogabile per chi volesse intraprendere tale carriera. Per elaborare un programma, si rendeva necessaria un’interpretazione delle esigenze del tempo, sviluppando un’operazione di analisi sociale in grado di recepire i vari mutamenti intervenuti, possibile attraverso una compagine partitica composita, data la partecipazione di intellettuali di diversa natura: giuristi, economisti, filosofi etc... Tale dinamica arricchiva i programmi, rendendoli piani a lungo termine, con una prospettiva che guardava al domani e non all’oggi come accade attualmente. Alla validità dei presupposti non sempre è corrisposta un’adeguata attività di governo.

Esempio che scolpisce questa metodologia è la fase del “compromesso storico”, proposta di governo elaborata dal segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, sulla rivista Rinascita (fondata nel 1944 da Palmiro Togliatti, anch’egli storico segretario PCI); progetto di governo futuristico per quell’epoca in quanto presupponeva un’alleanza tra il PCI e tutte le altre forze democratiche dell’arco costituzionale, data l’esistenza di una “conventio ad excludendum” nei confronti dei comunisti, che determinò un accentramento di potere nei partiti di governo con a capo la Democrazia Cristiana. La base teorico-programmatica assurgeva a presupposto necessario irrinunciabile, inteso come declinazione dei dogmi, effettuando un’opera di traduzione, partendo dai postulati sino a giungere alla delineazione delle linee programmatiche. In merito, è possibile richiamare l’articolo “Vangelo Socialista “pubblicato sulla rivista L’Espresso nel 1976, scritto dall’ex segretario del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi e dal sociologo Luciano Pellicani, il quale segnò un affrancamento del PSI dai dogmi del marxismo-leninismo. Un’altra consistente opera di elaborazione teorica fu il Codice di Camaldoli (redatto nel 1943 attraverso il concorso di un gruppo di intellettuali cattolici) pubblicato sulla rivista degli studenti universitari di Azione Cattolica nel 1945, diventando un serbatoio di principi e linee per la Democrazia Cristiana – principale partito di governo di ispirazione cattolica, dal dopoguerra sino al 1994. Pluralità di aspetti e valori che appaiono distanti rispetto alle dinamiche attuali. Senza dimenticare un contesto storico caratterizzato da forti tensioni sociali sfociati nell’eversione– soprattutto per ciò che concerne gli anni piombo (comprendenti la fine degli anni 60 sino all’inizio degli anni 80) – con una forte partecipazione della collettività alle vicende politiche, non trascurando l’ampio utilizzo dello sciopero in grado di paralizzare interi settori economici del paese, avendo alti tassi di partecipazione dei lavoratori. Un altro versante molto interessante riguarda la dinamica dello stile e dei toni con i quali si svolgeva il dibattito politico, una diversità di forma e di sostanza nel contenuto dei dialoghi. Aspetti intercettabili analizzando uno dei vari episodi della rubrica televisiva “Tribuna Politica” (creata su decisione dell’allora Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, nel 1961, un esempio utile è la puntata visionabile su YouTube dal titolo “I giovani e la patria”) proposta dalla Rai, in cui si capta subito un glossario totalmente differente, pregno di idealismo e teso alla valorizzazione della propria dottrina di partito. Risalta un garbo maggiore, raramente si verificano interruzioni per mezzo della controparte, consentendo uno svolgimento più lineare delle argomentazioni. Volgendo lo sguardo all’oggi, in qualsiasi talk show, notiamo subito un’interlocuzione articolata per mezzo di slogan, con un evidente involgarimento del dibattito teso non ad esaltare la propria proposta, bensì, all’evidenziazione delle manchevolezze della controparte, causando un’assenza di proposte a livello contenutistico. La proprietà di linguaggio possiamo dire fosse una virtù tutta primo-repubblicana, sebbene in alcuni casi criticata, per un eccesso di complessità e vaghezza.

Lo sfondo tratteggiato non può essere certamente esaustivo essendo una comparazione pregna di dati ed informazioni e, decretare la superiorità di un periodo storico rispetto ad un altro non avrebbe alcuna funzionalità. Dobbiamo però, guardare al domani consci dello ieri, cercando di non incorrere negli stessi errori, tentando di valorizzare gli aspetti di maggior pregio. In questo, il monito della storia può fungere da ausilio per costruire un avvenire migliore. Un paese diversificato ideologicamente come il nostro non era e non sarà mai facile da governare. Solo attraverso una riappropriazione dello spirito critico ma, soprattutto, con una coscienza storica scevra da ideologie, sarà possibile ridare una nuova nobiltà alla scienza del governare. Dando per assunto un principio, quello per cui i governanti sono sempre stati visti di cattivo occhio dai governati, perché il potere logora chi non ce l’ha come diceva Giulio Andreotti, uomo primo-repubblicano per antonomasia. Ci può rassicurare il fatto che persino Dante e Leopardi rivolgevano invettive alla decadenza politica della nostra nazione, quasi fosse un valore intrinseco nella nostra natura di italiani. Non ci resta che smentirli per far ritornare il “Bel Paese” ai fasti che merita.
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